PRESENTAZIONE
È possibile parlare di digiuno e di
rinunce all'uomo del terzo millennio? A questo stesso uomo la cultura dominante
e i mezzi di comunicazione di massa, che di essa danno rappresentazione,
propongono uno stile di vita che mira a tutti i costi all'elevazione della
"dignità sociale" dell'uomo, spesso a scapito della sua più
profonda "dignità umana"; uno stile di vita costruito sul benessere a
tutti i costi, sul consumismo e sullo spreco, sull'immagine e sugli status
symbol.
Con
questa sua efficacissima riflessione, che ci interpella nel profondo, padre
Raniero Cantalamessa interviene sul tema del digiuno proponendo l'attualità,
la necessità e la fecondità di questa pratica che porta il cristiano sulla
strada della conversione e dell'intercessione.
Diverse
sono le modalità del digiuno e non si limitano soltanto all'astinenza dal cibo:
quanti pensieri e parole, quante azioni, quante letture e immagini, quanti
discorsi e giudizi, quanti lussi e sprechi frenano il cammino spirituale del
cristiano e lo assimilano al mondo e alle sue logiche. I suggerimenti di padre
Raniero riconducono la pratica del digiuno, in tutti i suoi possibili aspetti, a
una misura alta della vita cristiana, laddove il digiuno e l'astinenza
assumono valenze "profetiche" se legati alla pratica della giustizia
e alla ricerca dell'unità.
Già
la Didachè, il più antico catechismo cristiano noto come dottrina dei dodici
apostoli, reclamava il primato del digiuno, considerandolo esso stesso un modo
di pregare, da offrire al Signore «per quelli che ci perseguitano» (cf Did.
1, 3). Come non ricordare, poi, che i Padri della Chiesa e tutta la tradizione
apostolica hanno sempre sostanziato il digiuno e le rinunce offerte a Dio con
altri aspetti fondamentali della vita cristiana: «Misericordia e pietà sono le
ali del digiuno... Il digiuno senza misericordia è simulacro della fame, è
apparenza senza valore della santità. Senza pietà il digiuno è occasione di
avarizia... Quando digiuniamo, fratelli, riponiamo il nostro pasto nella mano
del povero» (Pier Crisologo, vescovo del V sec., "Omelia VIII, Sul digiuno
della Quinquagesima ").
Trovano
spazio, all'interno del testo, alcune riflessioni sull'argomento, offerte da
Giovanni Paolo II in diverse occasioni, nonché un discorso tenuto da
Sant'Agostino, forse nel 411. In entrambi i casi, la santa pratica del digiuno
è puntualmente ricollegata alla conversione, all'elemosina, alla giustizia,
all'unità; Agostino, poi, approfitta dell'argomento per affrontare alcuni temi
relativi al paganesimo e, soprattutto, ad alcune eresie che ricorrevano in
maniera impropria alla pratica del digiuno.
Per
concludere, vogliamo ancora ricordare Pier Crisologo, il quale afferma che il
digiuno è «il timone della vita umana», che «permette alla barca della
nostra vita di essere guidata dal soffio dello Spirito Santo» (Ibid.).
Ci
sembra necessario riflettere su questo tema, in un momento storico nel quale
l'uomo ha estremo bisogno di essere ricondotto alle ragioni della vita cristiana
e al senso più profondo del suo "non rinnegare la fede in Cristo Gesù"
nelle sante pratiche ereditate dai nostri Padri, affinché la Chiesa prenda il
largo sì - come Giovanni Paolo II auspica - ma verso le mete e i sicuri approdi
indicati dal vangelo di Cristo Gesù.PREGHIERA INIZIALE
Padre Santo e misericordioso, Dio dei
nostri padri, guarda a noi che viviamo nella speranza questo giorno di digiuno
perché dalla mensa più parca nascano opere di carità in favore della pace;
moltiplica, ti supplichiamo, i frutti della nostra penitenza, convertili in
benedizione per quanti vivono nel bisogno e nella precarietà e fecondali con
l'azione del tuo Santo Spirito perché diventino semi di ricostruzione e di
riconciliazione.
Giovanni
Paolo II,
RITORNATE
A ME... CON DIGIUNI PIANTI E LAMENTI (G12, 12)
Meditazione tenuta da padre Raniero
Cantalamessa alla Casa Pontificia nel giorno di digiuno del 14 dicembre 2001.
I
IL DIGIUNO COME EVENTO
Il
vangelo riferisce il seguente episodio:
...
i discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Si recarono
allora da Gesù e gli dissero: «Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli
dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?» Gesù disse
loro: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con
loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. Ma verranno i
giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno... »
(Mc 2, 18-22).
La domanda del vangelo potrebbe risuonare,
ai nostri giorni, in altra forma: «Perché i discepoli di Budda e di Maometto
digiunano e i tuoi discepoli non digiunano?». E noi non potremmo trincerarci più
dietro la risposta che dà Gesù nel vangelo, perché lo Sposo è stato ormai
"tolto da noi" (anche se, in altro senso, sappiamo che è sempre
presente in mezzo ai suoi).
È
necessario riscoprire l'anima di questa pratica e rimetterla in onore
nell'autentico spirito della Bibbia, senza bisogno di mutuare modelli estranei
al Cristianesimo e senza dimenticare che, tra i cristiani, ci sono tanti che
anche oggi praticano il digiuno, "in segreto", come raccomandava Gesù.
Nella
Bibbia troviamo due specie di digiuno: un digiuno ascetico e un digiuno
profetico, il digiuno come rito e il digiuno come evento. Il digiuno rituale è
quello prescritto dalla legge o osservato, per tradizione, in tempi e modalità
stabilite e uguali per tutti. Il digiuno profetico è quello indetto una tantum,
come risposta a un preciso invito di Dio attraverso i profeti, in occasioni di
particolare gravità e necessità.
La
Scrittura è molto parca circa il digiuno rituale. L'unico digiuno prescritto
come obbligatorio dalla Legge mosaica era il digiuno del giorno della Grande
espiazione, lo Yom Kippur (cf Lv 16, 29). La tradizione posteriore aveva
aggiunto alcuni digiuni supplementari in ricordo di eventi luttuosi della storia
del popolo d'Israele (cf Zc 7, 3-5; 8, 19). Al tempo di Cristo si digiunava
regolarmente due volte la settimana, il lunedì e il giovedì, ed è proprio in
occasione di uno di questi digiuni supplementari che avviene l'incidente
ricordato sopra.
Maggior
rilievo occupa invece nella Bibbia il digiuno profetico o come evento. Mosè
digiuna quaranta giorni e quaranta notti prima di ricevere le tavole della Legge
(cf Es 34, 28), Elia prima dell'incontro con Dio sull'Oreb (cf 1 Re 19, 8), Gesù
prima di iniziare il suo ministero. Il re di Ninive indice uno di questi digiuni
in risposta alla predicazione di Giona (Gn 3, 7 ss).
Ma
il caso più tipico di questo digiuno è quello che si legge in Gioele e che la
Chiesa ci fa riascoltare ogni anno, all'inizio della Quaresima:
Suonate
la tromba in Sion, proclamate un digiuno, convocate un'adunanza solenne.
Radunate il popolo, indite un'assemblea, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli,
i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo (GI
2, 15-16).
II
TEMPO
DI RITORNO
Dobbiamo allora cercare di scoprire qual
è l'anima del digiuno-evento. Essa è espressa nelle parole che introducono
l'oracolo di Gioele:
Or dunque - parola del Signore -
ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi
il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché egli è
misericordioso e benigno, tardo all'ira e ricco di benevolenza e si impietosisce
riguardo alla sventura (G12, 12-14).
Il senso fondamentale di questo tipo di
digiuno è dunque di essere espressione comunitaria della volontà di
conversione. Anche dei non credenti possono aderire ad esso come risposta a
quell'appello che la Chiesa estende, sempre più spesso, oltre i suoi confini,
agli "uomini di buona volontà". Ma non basterebbe per noi credenti,
anzi sarebbe sprecare del tutto l'occasione.
Come
al tempo di Gioele o di Giona, quella di oggi è una chiamata al ravvedimento,
alla resipiscenza, a un "ritorno" collettivo a Dio. È, del resto, il
senso fondamentale della parola conversione (shub), che in ebraico vuol dire
proprio tornare sui propri passi, rientrare nell'alleanza violata con il
peccato. In Geremia leggiamo una specie di piccolo poema sulla conversione come
ritorno, ricco di immagini tratte dalla natura:
«Così
dice il Signore: Forse chi cade non si rialza e chi perde la strada non torna
indietro? Perché allora questo popolo si ribella con continua ribellione?
Persistono nella malafede, rifiutano di convertirsi...
Nessuno
si pente della sua malizia, dicendo: Che ho fatto?
Ognuno
segue senza voltarsi la sua corsa come un cavallo che si lanci nella battaglia.
Anche la cicogna nel cielo conosce i suoi tempi; la tortora, la rondinella e la
gru osservano la data del loro ritorno; il mio popolo, invece, non conosce il
comando del Signore... » (Ger
8, 4-7).
Se il peccato, nella sua più intima
essenza, è una "aversio a Deo", un "voltare le spalle a
Dio" (cf Ger 2, 27), per volgersi verso le creature o ripiegarsi su se
stessi, il cammino inverso dovrà per forza configurarsi come un ritorno.
Ma
cosa può significare questa parola, rivolta a una società come la nostra, che
appena sente parlare di "ritorno" pensa subito che la si voglia far
tornare indietro dalle sue conquiste, toglierle libertà e riportarla al Medio
evo? La nostra società ha liquidato la religione come un fenomeno del
passato, sostituito oggi dalla tecnica. In un fascicolo della rivista MicroMega,
uscito nell'Anno giubilare e dedicato al problema di Dio, un noto
intellettuale scriveva: «La religione morirà. Non è un auspicio, né tanto
meno una profezia. È già un fatto che sta attendendo il suo compimento...
Passata la nostra generazione e forse quella dei nostri figli, nessuno più
considererà il bisogno di dare un senso alla vita un problema davvero
fondamentale... La tecnica ha portato la religione al suo crepuscolo».
Ma
ecco che bruscamente si è costretti a prendere atto che la religione non è
finita affatto, che è ancora una forza primaria; che, come l'energia nucleare,
può essere o sommamente benefica o sommamente distruttiva. («Corruptio
optimi pessima», dicevano gli antichi: la cosa migliore, se si corrompe,
diventa la peggiore). Si era ritenuta la religione una
"sovrastruttura" del fattore economico ed ecco che si rivela invece
qualcosa di irriducibile ad esso, un fattore di coesione, nel bene e nel male,
più forte della stessa idea di classe.
Sul
mensile Jesus lo scrittore cattolico Ferruccio Parazzoli notava che, davanti a
questi fatti, l'uomo occidentale si è precipitato in libreria in cerca di
libri - Corano o altro - che l'aiutassero a capire chi erano gli uomini che,
tragicamente o pacificamente, scopriva improvvisamente di avere di fronte: come
è fatta la loro anima, in che cosa credono. Per fare questo, però, si è reso
conto che era altrettanto necessario conoscere la propria anima, in che cosa
crediamo noi. E qui la sorpresa: non abbiamo più un'anima; l'occidente opulento
ha perso la sua anima cristiana, crede di poterne fare a meno. A parlare di
anima in un mondo tecnologico si avrebbe lo stesso successo che ebbe Paolo
quando parlò della risurrezione ai dotti ateniesi. Scopriamo la nostra civiltà
come una civiltà idolatra.
Se
è così, l'appello al ravvedimento da far giungere al nostro mondo - certo, con
rispetto e amore - è lo stesso che Elia rivolse al popolo d'Israele, dopo che
questo aveva abbandonato la religione dei padri per darsi agli idoli: Fino a
quando zoppicherete con i due piedi? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece
lo è Baal, seguite lui! (1 Re 18, 21).
Nella versione di Gesù: Non potete
servire a due padroni (cf Mt 6, 24). Oggi gli idoli non hanno più nomi propri,
Baal, Astarte, hanno nomi comuni: denaro, lusso, sesso, ma la sostanza non è
cambiata. L'appello al ritorno a Dio deve prendere, nei paesi cristiani,
tutt'altra direzione che quella della "guerra santa": deve essere una
guerra ad intra, non ad extra; un entrare in lotta con se stessi, una
conversione, non un'aggressione. Questa è l'unica idea di guerra santa,
compatibile con lo spirito del vangelo.
Nell'invitare
i nostri contemporanei a tornare a Dio, dobbiamo far leva su una convinzione
comune anche a molti di loro. La strada che si è imboccata non porta da nessuna
parte; non porta alla vita, ma alla morte. Una parola di Dio in Ezechiele sembra
scritta per tutti coloro che da versanti opposti - dal nichilismo occidentale o
dal terrorismo suicida - flirtano con la morte e il nulla: Perché volete
morire, o Israeliti ? (Ez 18, 31). Perché questa voluptas moriendi, questo
"istinto di morte" come lo ha chiamato il Papa nel messaggio per la
giornata della pace, svoltasi il 14 dicembre 2001?'
Ma
noi non siamo qui, in questo momento, per occuparci degli altri, della società
intorno a noi, ma di noi. L'oracolo di Gioele chiama in causa direttamente i
pastori e le guide del popolo; dice: ...Tra il vestibolo e l'altare piangano
i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano: «Perdona, Signore, al tuo popolo e
non esporre la tua eredità al vituperio e alla derisione delle genti».
Perché
si dovrebbe dire fra i popoli: «Dov'è il loro Dio?» (G12, 17).
Due
cose vengono richieste ai sacerdoti: conversione e intercessione. Insieme con
gli altri essi sono chiamati alla conversione, a favore degli altri alla
intercessione. Accogliamo l'invito come fosse rivolto direttamente a noi, in
questo preciso momento della storia, e meditiamo un po' sulle due cose: primo
sulla nostra conversione e poi sul nostro dovere di intercessione.
Il ritorno a Dio e la conversione, come il
giudizio, «incipit a domo Dei», deve cominciare dalla casa di Dio (cf 1 Pt 4,
17). Non ci sarà un moto di ravvedimento e di risveglio della fede se non
comincia da noi, se non siamo i primi a metterci in cammino.
Ma
cosa significa l'appello al ritorno rivolto a noi? Ritorno da dove? Ravvedimento
da che cosa? Per scoprirlo basta che ci poniamo qualche domanda a modo di esame
di coscienza:
Che
cosa rappresenta, in realtà (non solo a parole), Dio nella mia vita?
Occupa
egli davvero il primo posto nei miei pensieri, desideri, discorsi?
Sappiamo
quanto sia facile costruirsi degli idoli anche nel servizio di Dio e della
Chiesa: lavoro, carriera, prestigio, riposo... Non oserei formulare qui, a
voce alta, queste domande, se non le avessi sentite prima rivolte a me, in altra
forma, nei miei esami di coscienza:
«Gesù
poteva dire: Io non cerco la mia gloria (Gv 8, 50): tu puoi dire lo stesso? Gesù
diceva: Lo zelo per la tua casa mi divora (Gv 2, 17): tu puoi dire lo stesso?
III
FRUTTI
DEGNI DI CONVERSIONE
Riconoscere
di aver bisogno di conversione è già una grazia straordinaria, è il passo
decisivo. Ma non basta. Deve seguire qualche gesto concreto che segni il passaggio
dalla velleità al volere. Giovanni Battista diceva ai farisei e ai sadducei: «...
Fate dunque frutti degni di conversione... » (Mt 3, 8).
Un
"frutto di conversione" ci viene proposto in particolare con il
digiuno che può prendere tre forme: «quella di un solo pasto, quella "a
pane e acqua", quella in cui si attende il tramonto del sole per assumere
cibo».
Ma
è ovvio che non tutto deve finire con la giornata dedicata al digiuno. Il
digiuno profetico, o come evento, deve servire a rilanciare il digiuno ascetico,
come dimensione costante della vita cristiana, accanto alla preghiera e alla
carità, e, anzi, proprio in funzione della preghiera e della carità.
È
vero che il digiuno è facilmente esposto a diverse contraffazioni, ma la Bibbia
offre anche la ricetta per preservarlo da esse. Il suo atteggiamento verso il
digiuno è sempre di "sì, ma", di approvazione e di riserva critica.
È
forse come questo il digiuno che bramo? dice il Signore in Isaia e continua
elencando quello che deve accompagnare il digiuno per essere gradito ai suoi
occhi: ... Sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo,
rimandare liberi gli oppressi... (cf Is 58, 5-7).
Gesù
critica il digiuno fatto con ostentazione (cf Mt 6, 16-18), o per accampare
meriti davanti a Dio: «... Digiuno due volte la settimana... » (Lc 18, 12).
Noi siamo molto sensibili oggi alle
ragioni del "ma", della riserva critica. Siamo convinti della priorità
di "spezzare il pane con l'affamato e vestire l'ignudo". Abbiamo
giustamente vergogna di chiamare, il nostro, un "digiuno", quando
quello che per noi è il colmo dell'austerità - mangiare pane e acqua - per
milioni di persone sarebbe già un lusso straordinario, soprattutto se si tratta
di pane fresco e acqua pulita.
Quello
che dobbiamo riscoprire sono invece le ragioni del "sì", della
"utilità del digiuno". Sant'Agostino ha scritto un trattatello
proprio con questo titolo, e in esso risponde già ad alcune delle nostre
obiezioni moderne:
Il
digiuno non vi sembri una cosa di poca importanza o superflua; chi lo pratica,
secondo le consuetudini della Chiesa, non pensi fra sé: Che digiuni a fare?
Defraudi la tua vita, ti procuri da te stesso una pena... A Dio può piacere che
tu ti tormenti? Sarebbe crudele se avesse piacere delle tue pene... Ma tu
rispondi così al tentatore: Mi impongo certo una privazione, ma perché egli mi
perdoni, per piacere ai suoi occhi, per arrivare a dilettarmi della sua
dolcezza.
Il
Catechismo della Chiesa Cattolica dice che il digiuno e l'astinenza «ci
preparano alle feste liturgiche, contribuiscono a farci acquistare il dominio
sui nostri istinti e la libertà del cuore». Un prefazio quaresimale fa di
esso questo elogio: «Con il digiuno quaresimale tu vinci le nostre passioni,
elevi lo spirito, infondi la forza e doni il premio». Il digiuno è soprattutto
un segno di solidarietà umana e carità cristiana perché conduce l'uomo a
vivere volontariamente, e quindi con un amore redentivo, ciò che milioni di
uomini vivono forzatamente.
Non
si può ridurre tutta l'ascesi cristiana al lavoro e all'accettazione delle
difficoltà inerenti alla vita. Questo è necessario, ma non è il segno
efficace di un atteggiamento di povertà spirituale, del rifiuto di appoggiarsi
sulle sole forze della carne, di umiltà davanti a Dio: tutte cose che sono
invece bene espresse dal digiuno. Il digiuno è importante anche come
"segno", per quello che simboleggia, non solo per quello di cui ci si
priva (Questo appare chiaro anche nel digiuno dei fratelli musulmani i quali
praticano il Ramadan, che è anzitutto un segno pubblico di
"sottomissione" a Dio). Pensare diversamente significa cadere in un
falso spiritualismo che trascura il significato del composto umano e della
necessità che abbiamo di atteggiamenti corporali per suscitare e sostenere la
vita profonda dello spirito.
IV
DIGIUNI
PERSONALIZZATI
Ma non ci dobbiamo illudere: anche nel
digiuno, non si torna indietro. Dobbiamo inventare forme di digiuno ascetico
nuove, corrispondenti alla vita di oggi che è diversa da quella di venti o
dieci secoli fa. Il digiuno classico, dagli alimenti, è diventato ambiguo nella
nostra società. Nell'antichità non si conosceva che il digiuno religioso; oggi
esiste un digiuno politico e sociale (scioperi della fame!), un digiuno igienico
o ideologico (vegetariani), un digiuno patologico (anoressia), un digiuno
estetico per "mantenere la linea".
La
forma più necessaria e significativa di digiuno per noi oggi si chiama sobrietà.
Privarsi volontariamente di piccole o grandi comodità, di quanto è accessorio
o inutile, è comunione alla passione di Cristo; è solidarietà con la povertà
di tanti.
È
anche contestazione di una mentalità consumistica. In un mondo, che ha fatto
della comodità superflua e inutile uno dei fini della propria attività,
rinunciare al superfluo, saper fare a meno di qualcosa, frenarsi dal ricorrere
sempre alla soluzione più comoda, dallo scegliere la cosa più facile,
l'oggetto di maggior lusso, vivere, insomma con sobrietà, è più efficace che
imporsi delle penitenze artificiali.
È,
oltretutto, giustizia verso le generazioni che seguiranno la nostra che non
devono essere ridotte a vivere delle ceneri di quello che abbiamo consumato e
sprecato noi. Ha un valore ecologico, di rispetto del creato.
Oggi
si ama "personalizzare" tutto: le lettere che si scrivono, gli
indumenti che si indossano... Bisogna personalizzare anche il digiuno,
proporre dei digiuni personalizzati, rispondenti cioè ai bisogni della
persona che lo pratica. Un inno della liturgia delle ore in Quaresima ci offre
lo spunto per farlo. Dice:
Utamur
ergo parcius Verbis, cibis et potibus, Somno, iocis et arctius Perstemus in
custodia. Usiamo parcamente di parole, cibi e bevande, del sonno e dei
divertimenti. Siamo più vigili nel custodire i sensi.
Non
esiste dunque solo il digiuno dai cibi e dalle bevande; esiste un digiuno
dalle parole, dallo svago, dagli spettacoli, e ognuno dovrebbe scoprire qual
è quello che Dio richiede in particolare da lui, in un certo momento della
vita. Tra l'altro, sono i digiuni meno esposti ad essere intaccati dalla vanità
e dall'orgoglio, perché nessuno li vede se non Dio. Per qualcuno il digiuno più
necessario potrebbe essere il digiuno dalle parole. Scrive l'Apostolo:
Nessuna
parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che
possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che
ascoltano (Ef 4, 29).
Sono
parole cattive quelle che sparlano del fratello (cf Gc 4, 11), che seminano
zizzania; le parole che tendono a mettere in buona luce il nostro operato e in
cattiva luce l'operato degli altri, le parole ironiche o sarcastiche. Non è
difficile imparare a distinguere le parole cattive da quelle buone; basta, per
così dire, seguirne, o prevederne, con la mente la traiettoria, vedere dove
vanno a parare: se finiscono a nostra gloria, o a gloria di Dio e del fratello,
se servono a giustificare, commiserare e far valere il mio "io", o
invece quello del prossimo.
Per
altri, più importante di quello dalle parole, è il digiuno dai pensieri. Mi
spiego con le parole con un anonimo monaco certosino dei nostri giorni:
Osserva
per un solo giorno, il corso dei tuoi pensieri: ti sorprenderà la frequenza e
la vivacità delle tue critiche interne con immaginari interlocutori, se non
altro con quelli che ti stanno vicino. Qual è di solito la loro origine?
Questo: lo scontento a causa dei superiori che non ci vogliono bene, non ci
stimano, non ci capiscono; sono severi, ingiusti, troppo gretti con noi o con
altri oppressi. Siamo scontenti dei nostri fratelli che giudichiamo
incomprensivi, cocciuti, sbrigativi, confusionari, o ingiuriosi...
Allora
nel nostro spirito si crea un tribunale, nel quale siamo procuratore,
presidente, giudice e giurato; raramente avvocato, se non a nostro favore. Si
espongono i torti; si pesano le ragioni; ci si difende; ci si giustifica; si
condanna l'assente. Forse si elaborano piani di rivincita o raggiri
vendicativi... In fondo sono sussulti dell'amor proprio, giudizi affrettati o
temerari, agitazione passionale che si conclude con la perdita della pace
interiore.
Ci
sono persone che passano ore e ore a masticare certe radici che girano e
rigirano nella bocca. Quando indugiamo su questi pensieri somigliamo a loro,
solo che quella che succhiamo è una radice velenosa... Ai pensieri di risentimento
suggeriti dall'amor proprio bisogna sostituire pensieri di perdono. Il perdono
ha valore terapeutico: guarisce chi lo dà e chi lo riceve.
Per
tutti, infine, è indispensabile oggigiorno il digiuno dalle immagini. Viviamo
in una cultura dell'immagine: rotocalchi, cinema, televisione, internet...
Nessun cibo - dice la Scrittura - per sé è impuro; molte immagini lo sono.
Sono il veicolo privilegiato dell'antivangelo: sensualità, violenza,
immoralità. Sono le truppe speciali del dio Mammona. A Feuerbach è attribuito
il detto: «L'uomo è ciò che mangia»; oggi si deve dire: «L'uomo è ciò che
guarda». L'immagine ha un incredibile potere di plasmare e condizionare il
mondo interiore di chi la riceve. Siamo abitati da quello che facciamo entrare
dagli occhi.
Per
un sacerdote, un religioso, un annunciatore, questa è ormai una questione di
vita o di morte. «Ma, padre - mi obbiettò un giorno uno di loro -, non è Dio
che ha creato l'occhio per guardare tutto ciò che di bello c'è nel mondo?».
«Sì, fratello, - gli risposi - ma quello stesso Dio che ha creato l'occhio per
guardare ha anche creato la palpebra per chiuderlo. E sapeva quello che faceva».
V
INTERCESSIONE
La seconda cosa che i sacerdoti devono
fare, secondo l'oracolo di Gioele, - l'accenno solamente - è intercedere:
piangano i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano: «Perdona, Signore, al tuo
popolo... ». Tutti ricordiamo il canto gregoriano: «Parce, Domine, parce
populo tuo... ». È tratto da qui; sono le parole di Gioele nella versione
della Volgata. Nel caso di Gioele, lo scopo era chiedere la fine di calamità
naturali, l'invasione delle cavallette e la carestia; ai giorni nostri è
chiedere che cessino le calamità indotte dall'uomo - terrorismo e guerra - e si
ritrovino le vie della pace.
L'intercessione,
in questo caso, deve prendere la forma di un accorato «Da pacem, Domine, in
diebus nostris: Concedi la pace ai nostri giorni». Venerdì 7 dicembre 2001 è
stata eseguita nell'Aula Paolo VI la Missa pro pace di Wojcieck Kilar con il
coro e l'orchestra della Filarmonica nazionale di Varsavia. Il momento di più
intensa commozione è stato proprio il finale Dona nobis pacem durato, da solo,
quasi sette minuti.
Che
significa intercedere? Significa unirsi, nella fede, a Cristo risorto che vive
in perenne stato di intercessione per il mondo (cf Rm 8, 34; Eb 7, 25; 1 Gv 2,
1); significa unirsi allo Spirito che con gemiti inesprimibili, intercede per i
credenti secondo i disegni di Dio (cf Rm 8, 26-27). La Scrittura mette in
rilievo lo straordinario potere che ha presso Dio, per sua stessa disposizione,
la preghiera di coloro che ha messo a capo del suo popolo. Dice, una volta, che
Dio aveva deciso di sterminare il suo popolo a causa del vitello d'oro, se Mosè
non fosse stato sulla breccia di fronte a lui per stornare la sua collera (cf
Sal 106, 23). Nei Vespri del comune dei pastori troviamo questa bella
invocazione: «Hai perdonato le colpe del tuo popolo per le preghiere di pastori
santi che intercedevano come Mosè: per il loro meriti purifica e rinnova sempre
la tua Chiesa». Non desistiamo dall'intercedere dicendo: «Tanto non cambia mai
nulla, abbiamo bussato tante volte e nessuna porta si è aperta... ». Attento:
forse tu hai bussato a una porta di servizio e non ti sei accorto che Dio ti ha
aperto il portone principale. Ti sta dando qualcosa di più importante per
l'eternità di quello che hai chiesto... Un giorno scopriremo che nessuna
preghiera di intercessione, fatta con fede e umiltà, senza neppure preoccuparsi
di verificare se c'è stata o meno una risposta, è andata mai a vuoto. Tanto
meno quando si eleva a Dio da tutta la Chiesa per la pace ed è sostenuta dal
digiuno...
LA PAROLA DI GIOVANNI PAOLO II
PREGHIERA, DIGIUNO E CARITA
«La
pace o la violenza germogliano dal cuore dell'uomo, sul quale Dio solo ha
potere. Convinti di ciò, i credenti adottano da sempre contro i più gravi
pericoli le armi del digiuno e della preghiera, accompagnandoli con opere di
carità concreta.
Il
digiuno esprime dolore per una grave sventura ma pure la volontà di assumerne
in qualche misura la responsabilità, confessando i propri peccati e
impegnandosi a convertire il cuore e le azioni a una maggiore giustizia verso
Dio e verso il prossimo. Digiunando si riconosce con fiduciosa umiltà che un
autentico rinnovamento personale e sociale non può che venire da Dio, dal
quale tutti radicalmente dipendiamo. Il digiuno consente poi di condividere il
pane quotidiano con chi ne è privo, al di fuori di ogni pietismo o ingannevole
assistenzialismo». (Giovanni Paolo II, Angelus Domini,
9 dicembre 2001)
«Il
digiuno deve andare di pari passo con la preghiera, perché essa ci dirige
direttamente verso lui [Dio]. D'altronde il digiuno, cioè la mortificazione dei
sensi, il dominio del corpo, conferiscono alla preghiera una maggiore
efficacia». (Udienza generale, 21 marzo 1979)
«Sappiamo
che la preghiera acquista forza se è accompagnata dal digiuno e
dall'elemosina. Così insegna già l'Antico Testamento e i cristiani, fin dai
primi secoli, hanno accolto questa lezione e l'hanno applicata, particolarmente
nei tempi di Avvento e di Quaresima... Ciò di cui ci si priva nel digiuno potrà
essere messo a disposizione dei poveri... ». (Giovanni
Paolo II, Angelus Domini, 18 novembre 2001)
«Le
pratiche del digiuno e dell'elemosina, oltre a esprimere l'ascesi personale,
rivestono un'importante valenza comunitaria e sociale: richiamano l'esigenza di
"convertire" il modello di sviluppo per una più giusta
distribuzione dei beni, così da poter vivere tutti dignitosamente». (Celebrazione
del Mercoledì santo nella basilica di Santa Sabina, 17 febbraio 1996)
Il
digiuno diventa penitenza, cioè conversione a Dio, in quanto purifica il cuore
dalle tante scorie del male, abbellisce l'anima di virtù, allena la volontà al
bene, dilata il cuore ad accogliere l'abbondanza della divina grazia». (Ai
giovani in piazza San Pietro, 21 marzo 1979)
Il digiuno penitenziale, tra gli altri
significati, ha quello di aiutarci in un recupero dell'interiorità. Lo sforzo
di moderazione del cibo si estende alle altre cose non necessarie, ed è di
grande sostegno alla vita dello spirito. Sobrietà, raccoglimento e preghiera
vanno di pari passo». (Angelus Domini, 10 marzo 1996)UTILITÀ DEL DIGIUNO
Fame degli uomini, fame degli angeli, fame e sete di giustizia
Dire
qualcosa sul digiuno è un'ispirazione divina e anche il tempo dell'anno ci
invita a farlo. È un'osservanza questa, una virtù dell'animo, un vantaggio
dello spirito a spese della carne, e non può essere oggetto di offerta a Dio da
parte degli angeli. In cielo vi è ogni abbondanza e sazietà eterna. Lì non
manca nulla perché in Dio si appaga ogni desiderio. Lì il pane degli angeli è
Dio, che si è fatto uomo perché anche l'uomo potesse cibarsene. Qui tutte le
anime, che sono vestite di un corpo terreno, riempiono il ventre dei frutti
della terra, là gli spiriti razionali, che governano corpi celesti, riempiono
di Dio le loro menti. Tanto qui che lì vi è un cibo. Ma questo cibo nostro nel
momento stesso che ristora viene meno; diminuisce nella misura in cui riempie.
Quello invece rimane integro anche quando riempie. Bisogna aver fame di quel
cibo. Lo prescrive Cristo quando dice: Beati quelli che hanno fame e sete di
giustizia perché saranno saziati. Nel corso della vita terrena compete agli
uomini aver fame e sete di giustizia, ma esserne appagati appartiene all'altra
vita. Gli angeli si saziano di questo pane, di questo cibo. Gli uomini invece ne
hanno fame, sono tutti protesi nel desiderio di esso. Questo protendersi nel
desiderio dilata l'anima, ne aumenta la capacità. Fatti più capaci a suo
tempo saranno appagati. Che dire allora? Che su questa terra non ricevono alcun
appagamento quelli che hanno fame e sete di giustizia? Sì che ricevono
qualcosa, ma un conto è la refezione del viandante, un altro la perfezione
dei beati. Ascolta l'Apostolo, che ha fame e sete, e certamente di giustizia, la
più che se ne può raggiungere in questa vita, la più che se ne può
praticare. Nessuno oserebbe confrontarsi con lui nonché ritenersi superiore.
Dice dunque: Non che io abbia già acquistato il premio o sia ormai arrivato
alla perfezione. E considerate chi è che parla: il Vaso di elezione,
l'estremo lembo, per così dire, del vestito del Salvatore, una estrema frangia
che tuttavia sana chi la tocca, come la donna che pativa perdite di sangue,
perché aveva fede. È l'ultimo e il più piccolo degli apostoli, come egli
stesso dice:
Io
sono l'ultimo degli apostoli, e: Io sono l'infimo degli apostoli, e ancora: Non
sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la
Chiesa di Dio. Ma per grazia di Dio sono quello che sono e la sua grazia in me
non è stata vana, anzi ho faticato più di tutti loro; non io però ma la
grazia di Dio con me.
Ascoltando
queste parole, ti sembra di ascoltare uno che è ripieno di grazia, al colmo
della perfezione. Ma se l'hai ascoltato quando è sazio, ascolta di che cosa ha
ancora fame. Dice:
Non
che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione, e:
Fratelli, io non ritengo di aver raggiunto la meta, ma una cosa sì: dimentico
del passato e proteso verso il futuro corro verso la meta, per arrivare al
premio che Dio ci chiama a ricevere in Cristo Gesù.
Dice
di non essere ancora perfetto, di non avere ancora ricevuto, di non avere ancora
raggiunto. Ma dice di essere proteso in avanti; di correre verso il premio della
chiamata superna. È in viaggio; ha fame, vuol essere saziato, si affretta,
desidera giungere, brucia: nulla gli tarda quanto essere sciolto dal corpo per
essere con Cristo.
Alimento terreno, alimento celeste
Dunque, carissimi, come c'è un alimento
terreno, di cui si nutre la carne debole, c'è anche un alimento celeste di cui
si ricolma l'anima pia. L'uno e l'altro hanno un ruolo vitale: l'uno per gli
uomini, l'altro per gli angeli. Tengono un luogo intermedio gli uomini di fede;
distinti nel loro animo dalla turba degli infedeli. Essi sono protesi verso Dio,
e a loro va il richiamo: In alto il cuore, perché hanno la speranza di
un'altra vita e sanno che in questo mondo sono di passaggio. Essi non si possono
confrontare con quelli che ritengono essere un bene solo il godimento dei
piaceri terreni e neppure con quegli altri che abitano le supreme sedi del
cielo, la cui sola delizia è quel Pane stesso da cui sono stati creati. Quelli
che sono chini sulla terra, in cerca di cibo e di piacere che riguardi la sola
carne, sono da paragonarsi agli animali. Distano di gran lunga dagli angeli per
la condizione obiettiva e per il costume morale: per la condizione, perché
sono mortali; per il costume, perché sono sensuali. Fra quel popolo celeste e
quello terrestre era in certo modo sospeso l'Apostolo; là s'incamminava, di là
ritornava, là tendeva da qui sollevandosi. Non poteva ancora dirsi partecipe
di quel popolo, perché allora avrebbe detto: «Sono nella perfezione»; né era
con questi uomini pigri, inerti, fiacchi, sonnolenti, che non credono se non in
ciò che vedono e in ciò che passa, e che sono nati e che moriranno. Se si
ritenesse della loro schiera non direbbe: Corro al premio della superna
chiamata. Dobbiamo dunque regolare i nostri digiuni. Questo non è, come ho
detto, un adempimento angelico e neanche lo è di quegli uomini che sono schiavi
della gola. È un atto proprio alla via di mezzo, la nostra, per cui viviamo
distinti da chi non ha fede e con l'aspirazione di essere uniti agli angeli. Non
siamo ancora giunti, ma siamo in cammino; non abbiamo ancora quella felicità,
ma di qui vi sospiriamo. Qual è l'utilità di astenersi un poco dal cibo e
dal piacere della carne? La carne preme contro il suolo, la mente tende
all'alto; è trasportata dall'amore, è ritardata dal peso. A questo proposito
dice la Scrittura:
Il
corpo soggetto a corruzione appesantisce l'anima e l'abitazione terrena dei
sensi grava la mente dai molti pensieri".
Se
dunque la carne china sulla terra è un peso all'anima, un bagaglio che
appesantisce il suo volo, quanto più uno ripone le sue gioie nella sua vita
superiore, tanto più depone del suo bagaglio terreno. Ecco che cosa facciamo
quando digiuniamo.
Necessità
del digiuno
Il
digiuno non vi sembri una cosa di poca importanza o superflua, chi lo pratica,
secondo le consuetudini della Chiesa, non pensi fra sé, non dica fra sé,
ascoltando il tentatore che suggerisce nell'intimo: «Che cosa digiuni a
fare?" Defraudi la tua vita, non le dai ciò che le fa piacere; ti procuri
da te stesso una pena, ti fai carnefice e tormentatore di te stesso. A Dio può
piacere che tu ti tormenti? Sarebbe crudele se avesse piacere delle tue pene».
Ma tu rispondi così al tentatore: «Mi do certo un supplizio, ma perché egli
mi perdoni, da me stesso mi castigo perché egli mi aiuti, per piacere ai suoi
occhi, per arrivare al diletto della sua dolcezza. Anche la vittima è
tormentata, per essere posta sull'altare. Così la mia carne appesantisce meno
il mio spirito». A questo cattivo consigliere, schiavo del ventre, rispondi con
questo esempio: «Se tu, per caso, cavalcassi un giumento, se montassi un
cavallo che con la sua andatura sfrenata ti potesse far cadere, per fare un
viaggio tranquillo non razioneresti il cibo a quel furente, non cercheresti di
domare con la fame quello che non riesci a domare col morso? La mia carne è
il mio giumento mentre faccio il viaggio verso Gerusalemme, spesso mi porta via,
cerca di buttarmi fuori dalla strada. La mia via è Cristo. Non dovrò dunque
frenare con il digiuno la bestia che va a sbalzi?». Se qualcuno capisce ciò,
può verificare con la sua stessa esperienza quanto sia utile il digiuno. Ma
questa carne, che ora e domata, lo dovrà essere sempre? Finché oscilla nella
situazione temporale, finché è appesantita dalla condizione di mortalità, ha
questi sbalzi, ben visibili e pericolosi al nostro spirito. La carne qui infatti
è ancora corruttibile, non è ancora risorta. Il fatto è che non sempre sarà
così; adesso non ha ancora lo stato proprio della costituzione celeste, non
siamo ancora resi uguali agli angeli di Dio.
Carne e spirito
Ma
non pensi, la vostra dilezione, che la carne sia nemica dello spirito, quasi che
uno sia l'autore della carne e un altro quello dello spirito. Molti, soggetti
alla carne, seguendo questa opinione deviarono ritenendo che uno fosse l'autore
della carne e un altro quello dello spirito. Per di più si avvalgono, senza
comprenderla appieno, di una testimonianza apostolica: La carne ha desideri contrari
allo spirito e lo spirito ha desideri contrari alla carne. Ciò e vero, ma
osserva anche quest'altro passo: Nessuno ha mai in odio la propria carne, ma la
nutre e la riscalda, come Cristo la Chiesa. Nel primo passo citato sembra di
vedere come una lotta fra due nemici, la carne e lo spirito, perché la carne ha
desideri contrari allo spirito, e lo spirito ha desideri contrari alla carne.
In questo secondo passo invece vi è quasi un'unione coniugale: Nessuno ha mai
in odio la propria carne, ma la nutre e la riscalda, come Cristo la Chiesa. Come
ci comporteremo di fronte a questi due pareri? Se sono contrari, quale
accetteremo, quale rifiuteremo? Il fatto è che non sono contrari. Stia attenta
la carità vostra, io intanto li accetto tutti e due e dimostrerò, per quanto
mi è possibile, che concordano. Chiunque sia tu che stabilisci un creatore
della carne e un altro dello spirito, che ne pensi del passo che dice: Nessuno
ha mai in odio la propria carne, ma la nutre e la riscalda, come Cristo la
Chiesa. Non t'impressiona il paragone? Nutre dice e riscalda come Cristo la
Chiesa. Supponi di credere che la carne sia una catena. E chi ama la sua catena?
Supponi che la carne sia un carcere. E chi ama il suo carcere? Nessuno ha mai
in odio la sua carne. Chi non odierebbe di essere incatenato, chi non odierebbe
il suo supplizio? E invece: Nessuno ha mai in odio la sua carne, ma la nutre e
la riscalda come Cristo la Chiesa. Se dunque tu poni un autore alla carne e un
altro allo spirito, ne consegue che devi porne uno a Cristo e un altro alla
Chiesa. Il che, per chi sa, è una sciocchezza. Dunque ognuno ama la sua carne.
Lo dice l'Apostolo, e oltre alle parole dell'Apostolo, c'è l'esperienza personale.
Puoi essere padrone della tua carne finché vuoi, puoi accenderti di severità
contro di essa; ma se qualcuno sta per darti un colpo, tu chiudi gli occhi.
È
come una specie di matrimonio tra lo spirito e la carne. Come si spiega che la
carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito contrari alla carne`? Come
si spiega questo castigo che proviene da una propaggine della morte? Perché è
detto: Tutti muoiono in Adamo? Perché l'Apostolo dice: Siamo stati anche noi
una volta, per natura, figli d'ira, come gli altri. Egli ricevette sentenza di
morte: da lui siamo nati; da lui deriviamo questa carne che dobbiamo vincere. E
così abbiamo desideri contro la carne, per sottometterla a noi: domata per
portarla a ubbidienza. Ma noi non odiamo chi vogliamo semplicemente che ci
ubbidisca. Ciascuno dà per lo più una regola alla moglie, in casa; cerca di
farla ubbidire se è renitente, ma non perseguita una nemica. Cerchi di domare
anche il figlio, perché ti ubbidisca. Forse che lo odi, lo ritieni forse un
nemico? Ami e castighi anche il tuo servo e nel punirlo lo rendi ubbidiente. Su
questo argomento hai un pensiero chiaro e completo dell'Apostolo: Non corro -
dice - come chi è senza meta; non faccio il pugilato come uno che batte l'aria,
ma tratto duramente il mio corpo e lo trascino in servitù, perché non
succeda che dopo aver predicato agli altri, venga io stesso squalificato.
La
carne ha, per la sua condizione terrena, certi suoi appetiti: su questi puoi
esercitare un freno. Se ti lasci dirigere da chi sta sopra di te, puoi ben
dirigere chi sta sotto di te. Sotto di te c'è la tua carne; sopra di te il tuo
Dio. Sei ammonito in che modo ti competa servire il tuo Dio quando vuoi che la
tua carne serva a te. Tu fai attenzione a quello che ti sta sotto. Osserva anche
quello che ti sta sopra. Tu non hai potere sul dipendente se non in quanto ti
viene dal superiore a te. Sei servo, hai un servo. Ma il Signore ha due servi.
Il tuo servo è più nel potere del Signore che nel tuo. Dunque, tu vuoi essere
ubbidito dalla carne. Ma essa non lo può in tutto. In tutto ubbidisce al suo
Signore ma non a te. Tu mi domandi spiegazione. Tu cammini, muovi i piedi. Essa
ti segue. Ma camminerà con te per tutto il tempo che tu vorresti? È animata da
te. Ma forse fino a quando tu vorresti? E anche: stai male quando vuoi, stai
bene quando vuoi? Il tuo Signore ti tiene per lo più in esercizio per mezzo di
questo tuo servitore, perché come hai disprezzato lui meriti di essere corretto
per mezzo del servo.
Necessità del dominio sui sensi
Questo
problema in che senso ti riguarda? Nel non abbandonarti al piacere della carne
fino all'illecito e qualche volta nel mettere un freno anche a ciò che è
lecito. Chi non mette mai un freno alle cose lecite è contiguo alle illecite.
Come, ad esempio, fratelli, è lecito il matrimonio, illecito l'adulterio; e
tuttavia gli uomini temperanti, per tenersi lontani dall'adulterio illecito,
pongono un freno anche nel matrimonio lecito. È lecito bere a sazietà, è
illecita l'ubriachezza; tuttavia gli uomini morigerati, per tenersi lontani
dalla vergogna dell'ubriachezza, reprimono anche, in parte, la loro libertà di
farsi sazi. Comportiamoci così, fratelli; siamo temperanti e agiamo
coscientemente, tenendo presente il fine del nostro agire. Ponendo una misura
al piacere della carne, si acquista il piacere dello spirito.
Perciò
bisogna considerare quale sia il fine dei nostri digiuni in rapporto al nostro
cammino, quale sia il nostro cammino, quale la meta. Infatti anche i pagani
qualche volta digiunano; ma non sanno quale è la meta cui tendiamo noi. Anche
i Giudei qualche volta digiunano ma non hanno preso la via che percorriamo noi.
È come quando uno doma il suo cavallo ma prende una strada sbagliata. Digiunano
anche gli eretici. Vedo il loro comportamento. Domando quale è la loro meta. «Voi
digiunate - dico - ma per piacere a chi?». «A Dio», rispondono. «Ma siete
sicuri che il dono è accettato?». Bisogna anzitutto considerare questo monito:
Lascia il tuo dono e va' prima a riconciliarti col tuo fratello. Non è
corretto domare le proprie membra e dilaniare le membra di Cristo. È stato
scritto:
Si
sente il clamore di litigi tra di voi e anche provocate e colpite con pugni
quelli che stanno sotto la vostra giurisdizione. Non è questo il digiuno che
voglio, dice il Signore.
Sarebbe
dunque da disapprovare il tuo digiuno se tu fossi nel contempo eccessivamente
severo col tuo servo. Come si può approvare il tuo digiuno se non riconosci il
tuo fratello? Non cerco da che cibo ti astieni, ma che cibo ami. Dimmi che cibo
ami perché io possa acconsentire al fatto che tu te ne astenga. Ami il cibo
della giustizia? Forse mi risponderai: «Lo amo». Sia dunque manifesta la tua
giustizia. Io ritengo cosa giusta infatti che tu adempia al tuo servizio verso
il tuo superiore, affinché il tuo dipendente lo adempia verso di te.
Parlavamo della carne, che è inferiore allo spirito, gli è soggetta; è fatta
per essere da lui domata e regolata. Tu ti comporti con essa in modo che ti
ubbidisca e le razioni il cibo perché la vuoi a te soggetta. Riconosci chi è
maggiore, riconosci chi è superiore, se vuoi che l'inferiore giustamente si
sottometta a te.
È
un controsenso se la tua carne ubbidisce a te e tu non ubbidisci al tuo Dio. Da
essa stessa sei condannato per il fatto che ti ubbidisce. Ubbidendoti fa
testimonianza contro di te.
L'unità vale più del digiuno
«Ma
a quale superiore - mi domandi - si deve ubbidire?». Ecco che parla Cristo
(tu ti eri detto amante della giustizia): Vi do un comandamento nuovo, che vi
amiate gli uni gli altri. Ascolta dunque il tuo Signore che comanda di amarci a
vicenda. Egli fa un corpo solo di noi tutti, come membra del suo corpo, e il
corpo ha un solo capo che è lui, il nostro Signore e Salvatore. Ma tu ti vuoi
staccare dalle membra di Cristo. Tu non ami l'unità. Se ti fossi distorto un
dito non correresti dal medico perché te lo aggiusti? Il tuo corpo sta bene
quando le sue membra si armonizzano tra loro; allora ti chiami sano, allora stai
bene. Ma se qualcosa nel tuo corpo è in dissonanza con le altre parti, tu vai a
cercare chi ti corregga. Perché dunque non cerchi che si corregga, che ritorni
nella compagine delle membra di Cristo, che si armonizzi in questo stesso corpo
e nel tuo ciò che è in dissonanza? Certamente rispetto a tutte le altre membra
i capelli sono una cosa di minore importanza. Che cosa c'è di più infimo, nel
tuo corpo, dei tuoi capelli, di più insignificante, di minor conto? Eppure se
vieni mal rasato ti inquieti col barbiere perché il taglio non è uniforme. E
invece per le membra di Cristo non ti preoccupi di mantenere l'unità. E allora
a che cosa valgono, a che cosa giovano i tuoi digiuni? Arrivi a ritenere che Dio
non sia degno di essere servito nell'unità da tutti coloro che credono lui; e
tuttavia nel tuo corpo, nelle tue membra, nei tuoi capelli vuoi che questa unità
sia osservata. Parlano le tue viscere, le tue membra che portano, contro di te,
una vera testimonianza e tu invece ne porti una falsa contro le membra di
Cristo.
Lo spirito scismatico
Ti
sei dissociato dal digiuno dei pagani? Tu lo credi e perciò ti ritieni sicuro.
«Io - dici - digiuno per Cristo. Essi per gli idoli e i demoni». Accetto il
tuo ragionamento e, in realtà, la distinzione c'è. Ma ecco, come dicevo
poc'anzi, in qual modo le tue membra portavano una testimonianza contro di te,
così che ti ammonivo come devi comportarti con le membra di Cristo tuo Dio; e
gli stessi pagani, dai quali distingui, il tuo digiuno, ti insegnino qualcosa
sull'unità del tuo Cristo.
I pagani sono concordi nel culto agli stessi dèi fra loro discordi
Ecco,
essi, non divisi tra loro, venerano molti dèi falsi. E noi forse abbiamo
trovato l'unico, vero Dio ma in modo tale da non essere nell'unità pur essendo
sotto un solo Dio? Essi ne hanno molti e falsi, noi uno solo e vero. Essi sotto
molti e falsi non hanno divisione; noi sotto uno e vero non arriviamo a tenere
l'unità. Non ti dispiace, non te ne rammarichi, non ti vergogni? C'è di più.
I pagani non solo venerano molti dèi falsi, ma anche parecchi fra di loro
contrari e nemici. A mo' di esempio ricordiamone alcuni, se non possiamo tutti.
Ercole e Giunone erano nemici: erano stati uomini infatti, figliastro lui,
matrigna lei. All'uno e all'altro i pagani eressero templi, a Giunone a Ercole.
Adorano lui, adorano lei. Vanno ugualmente da Giunone ugualmente da Ercole. Sono
concordi nel culto a loro che sono in discordia. Vulcano e Marte sono nemici e
ne ha buona ragione Vulcano; ma dammi un giudice che ascolti! Il misero odia
l'adulterio della moglie e tuttavia non osa distogliere dal tempio di Marte i
suoi devoti. E così adorano l'uno e l'altro. Se dovessero imitare i loro dèi
litigherebbero anche i devoti. Vanno invece dal tempio di Marte a quello di
Vulcano. Sembrerebbe una sconvenienza. E invece non temono che il marito si
adiri perché si viene a lui dal tempio dell'adultero Marte. (Hanno buon senso,
sanno che la pietra non può sentire). Ecco, venerandone molti, falsi, diversi,
avversi tra loro, tengono tuttavia nel venerarli una certa unità. In questo
modo gli stessi pagani, dai quali hai distinto il tuo digiuno, portano una
testimonianza contro di te. Vieni all'unità, fratello [donatista] ! Noi
veneriamo un solo Dio e non abbiamo mai visto il Padre e il Figlio in litigio
tra loro. I pagani non vadano in collera con me perché ho detto queste cose dei
loro dèi. Perché dovrebbero adirarsi delle mie parole e non piuttosto dei
loro scritti? Questi distruggano prima, se possono, anzi se vogliono. Se non
vogliono esserne ammaestrati i grammatici smettano d'insegnare. Si adirerebbe
dunque con me [il pagano] in quanto dico le stesse cose per cui paga la scuola
affinché il figlio le impari?
Adoperarsi per l'unità coi donatisti
Dunque,
o carissimi, essi hanno precisamente tali dèi, o meglio li ebbero. Poiché
infatti essi non vollero abbandonarli, furono abbandonati da loro. Ci sono
molti anche che li abbandonarono e ancora oggi li abbandonano: abbattono i loro
templi all'interno del cuore; godiamo di loro in quanto vengono all'unità, non
alla divisione. Il pagano non trovi un'occasione che lo induca a non diventare
cristiano. Siamo concordi, fratelli, noi che veneriamo un solo Dio, per
poterli in un certo qual modo, con la nostra concordia, esortare ad abbandonare
i molti dèi perché vengano alla pace e all'unità venerare un solo Dio. E se
per caso, per il fatto che noi cristiani non abbiamo tra di noi l'unità,
s'infastidiscono e per questo ci criticano perciò sono lenti e pigri nel venire
alla salvezza, li arringherò un poco. Vi dirò io che cosa dovete dir loro.
Non preferiscano a noi la loro quasi concordia, non si compiacciano della loro
unità. Essi non devono sopportare il nemico che dobbiamo affrontare noi. Questo
nemico stesso in sostanza li possiede anche se non sono discordi. Egli li vede
adoratori dei falsi dèi li vede servi e servi di demoni. A questo punto che
vantaggio c'è per lui se litigano o, per lui, che danno c'è se non litigano?
Li possiede comunque così come sono partecipi della stessa credenza vera e
falsa, anche se d'accordo tra di loro. Quando si vedrà abbandonato e vedrà
molti correre all'unico Dio, lasciare i suoi sacrileghi riti, abbattere i
templi, spezzare gli idoli, proibire i sacrifici, allora vedrà di aver perso
quelli che teneva in potere, li vedrà allontanarsi dalla sua famiglia,
conoscere il vero Dio. Allora che farà? A quali insidie ricorrerà? Sa che non
ci può possedere se siamo concordi, che non ci può dividere l'unico Dio, che
non può più presentare a noi i falsi dèi. Sa che la nostra vita è la carità,
la nostra morte la discordia; perciò ha introdotto liti tra i cristiani, non
potendo fabbricare molti dèi per i cristiani; moltiplicò le sette, seminò
errori, stabilì gli eretici. Ma tutto quel che ha fatto lo ha fatto con quella
paglia di cui parlò il Signore. Ecco la nostra sicurezza: anche se egli
infierisce, anche se insidia e semina vari dissensi fra i cristiani, e noi
invece riconosciamo il nostro Dio, se siamo fedeli a lui concordemente, se
manteniamo la fede, siamo al sicuro. Fratelli, il frumento dell'aia non va via o
se va via ritorna; il vento della tentazione invece porta via qualcosa della
paglia. Onde per noi non si crea via di perdizione ma impegno di esercitazione.
E quanta paglia non è portata via ora sarà vagliata nell'ultimo giudizio e
non va, tutta la paglia, se non nel fuoco. Dobbiamo darci da fare, fratelli,
finché siamo in tempo, con quante forze possiamo, con quanta attenzione
possiamo, perché, se può avvenire, ritorni magari insieme alla paglia, il frumento,
purché esso non perisca. Qui è messo alla prova il nostro amore, qui ci viene
proposta la grande opera della nostra vita. Non sarebbe individuata la misura
del nostro amore ai fratelli, se nessuno fosse messo alla prova; nel giudizio
finale non apparirebbe quanto è l'amore se fosse cosa trascurabile l'abisso
della perdizione.
La coercizione
Diamoci
da fare, fratelli, senza sosta con ogni attività, con ogni fatica, con pio
affetto verso Dio, verso di loro, fra di noi, perché non succeda che, volendo
sopire la loro vecchia discordia provochino nuove risse fra di noi; sopra ogni
cosa siamo attenti a mantenere fra noi fermissimo l'amore. Essi si sono
congelati nelle loro iniquità. Come puoi sciogliere il ghiaccio dell'iniquità,
se non ardi della fiamma della carità? Non facciamo caso se risultiamo
molesti coll'incalzarli. Vediamo quale è il fine: in esso teniamoci sicuri.
Forse che li portiamo alla morte e non invece via dalla morte? Assolutamente
curiamo queste vecchie ferite, in qualsiasi modo possiamo, ma umilmente; e
andiamo cauti perché non venga meno tra le mani del medico colui che viene
curato. Che cosa ci sentiamo in dovere di fare se piange il bambino che viene
condotto a scuola? E che cosa dobbiamo pensare se uno rifiuta la mano del medico
che opera il taglio? Gli apostoli furono pescatori e il Signore disse loro: Vi
farò pescatori di uomini". Ma dal profeta è stato detto che Dio prima
avrebbe mandato i pescatori, poi i cacciatori". Prima mandò i pescatori,
poi manda i cacciatori. Perché i pescatori, perché i cacciatori? Dal profondo
abissale mare della superstizione idolatrica sono stati pescati i credenti con
le reti della fede. E i cacciatori perché furono mandati? Furono mandati
perché essi vagavano per monti e colli, cioè per le superbie umane, per gli
orgogli terreni. Uno di questi monti è Donato, un altro Ario, un altro Fotino e
un altro Novato; erravano i credenti per questi monti; il loro vagare aveva
bisogno dei cacciatori. Perciò sono stati distribuiti i diversi uffici dei
pescatori e dei cacciatori, perché non capiti che costoro ci dicano: «Perché
gli apostoli non costrinsero nessuno, non spinsero nessuno?». Il pescatore, in
quanto tale, butta le reti in mare e tira su quello che vi è incappato dentro.
Il cacciatore invece circonda le selve, scuote i cespugli di rovi e, moltiplicate
da ogni parte le minacce, costringe a cadere nelle reti. Non vada né di qua né
di là; da qui vienigli incontro, di là urtalo, dall'altra parte spaventalo;
non possa evadere, non sfugga. Ma le nostre reti sono vita perché si conservi
l'amore. Non preoccuparti di quanto gli puoi essere molesto, ma di quanto tu
lo ami. Qual è la tua pietà se tu lo risparmi ed egli muore?
Il
sonno letargico e il figlio del vecchio morente Fratelli, considerate anche
questo paragone, questa similitudine; una sola cosa può in effetti aver molte
similitudini. Gli uomini sono strutturati in modo che ognuno vuole una
successione nei figli, e non c'è nessuno che non desideri e speri nella sua
casa questo ordine: che chi ha generato ceda il posto ai generati ed essi
succedano. Tuttavia se un vecchio padre è malato (non faccio il caso del figlio
malato assistito dal padre, che invece cerca l'erede, desidera il successore,
che lo ha generato perché viva lui morto; non dico questo) dico dunque se il
padre è malato, sta per andarsene, vecchio, vicino alla morte, al punto in cui
chiede di assecondare l'ordine della natura, quando ormai non ha più niente da
sperare, tuttavia se è malato e gli sta vicino con affetto il figlio, e il
medico vede che è preso da un sonno nocivo, letale, egli è paziente col
vecchio che sta per morire, anche per quei pochi giorni che gli restano da
vivere; e sta lì il figlio, premuroso vicino al padre, e sente il medico dire:
«Quest'uomo può cadere in letargo e poi morire se lo si lascia prendere dal
sonno; se volete che viva non deve dormire». E quel sonno nocivo invece lo
prende: nocivo e dolce. Ma il figlio ammonito dal medico sta lì attento e, con
fastidio del padre, lo sveglia mettendogli le mani addosso; se il sonno è più
forte, lo pizzica e, se questo non serve, lo punge. Certamente riesce fastidioso
al padre, ma sarebbe empio se non gli desse questo fastidio. In quanto a lui che
vorrebbe morire, respinge il figlio molesto col volto corrucciato e con la
voce alterata: «Lasciami stare, perché mi tormenti?». «È che il medico ha
detto che se ti addormenti, muori». Ed egli: «Lasciami stare, voglio morire».
Il vecchio dice: «Voglio morire» e il figlio sarebbe empio se non dicesse:
«Io non lo voglio». E si tratta comunque di una vita temporale; né colui a
cui riesce molesto il figlio che lo vuol svegliare resta perpetuamente in quella
vita, né il figlio che succede al padre che se ne va e muore. Tutti e due
passano attraverso di essa, tutt'e due vi trasvolano, di passaggio; e tuttavia
sarebbero empi se non provvedessero a mantenere questa vita temporale a
rischio di rendersi molesti a vicenda. Dunque io se vedessi il mio fratello
preso da un sonno di cattiva lega, non lo sveglierei per timore di essere
molesto a chi sta dormendo e morendo? Lungi da me il fare questo, anche se, lui
vivo, è ristretto il mio patrimonio. Nel nostro caso poiché ciò che riceveremo
non si può dividere e anche se si moltiplicano í possessori non diminuisce
il patrimonio, non lo terrò desto, sveglio anche se lo infastidisco, sicché
privo del sonno di un antichissimo errore, possa godere con me l'eredità dell'unità?
Certo che lo farò. Se sono sveglio lo farò. Se non lo faccio, dormo anch'io.
Non si deve dividere l'eredità del Signore
Carissimi,
il Signore, mentre parlava alle turbe fu interpellato da un tale che gli
disse:
Signore, di' a mio fratello che divida
con me l'eredità. E il Signore: O uomo, chi mi ha costituito, dimmi, mediatore
di eredità tra voi?
Certamente
egli non rifiutava di frenare l'avidità ma non voleva diventare giudice in una
divisione. In quanto a noi, carissimi, non cerchiamolo come giudice in tali vertenze,
perché tale non è la nostra eredità. Noi con pura fronte e con buona
coscienza interpelliamo il Signore nostro e ognuno gli dica: «Signore, di' a
mio fratello non che divida ma che possegga insieme con me l'eredità». Che
cosa vuoi dividere, fratello? Quello che il Signore ci ha lasciato non può
essere diviso. È forse oro, infatti, che richieda una bilancia per la
divisione? È forse argento, è denaro, è bestiame, o sono schiavi, o alberi o
campi? Tutte queste cose si possono dividere. Non si può invece dividere: Vi do
la mia pace, vi lascio la mia pace. Infine nelle eredità terrene c'è anche il
fatto che la divisione produce una diminuzione. Supponi due fratelli sotto uno
stesso padre. Tutto ciò che possiede il padre è di ambedue: tutto dell'uno e
dell'altro. Per cui se si fa una domanda sulla proprietà e se ad uno di loro ad
esempio si chiede: «Di chi è quel cavallo?», egli risponderà: « È nostro».
«Di chi quel fondo? quello schiavo?», sempre risponderà: «È nostro». Ma
se si farà la divisione, diversa è la risposta. «Di chi è quel cavallo?».
« È mio». «E questo di chi è?». «Di mio fratello». Ecco che cosa ha
fatto la divisione. Non hai guadagnato una parte, ma perso una parte. Dunque
anche se avessimo un'eredità che si può dividere non dovremmo dividerla per
non diminuire le nostre ricchezze. E certo non vi è cosa più nociva per i
figli che voler fare la divisione vivo il padre. Se questo si accingono a fare,
se promuovono liti e contese per rivendicare ognuno a sé la propria parte,
direbbe il vecchio: «Che cosa fate? Sono ancora vivo, aspettate, un poco, la
mia morte, poi fate a pezzi la mia casa». Noi abbiamo come padre Dio. Perché
andare in divisioni? Perché andare in liti? Almeno aspettiamo. Se può morire,
divideremo.
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