domenica 5 gennaio 2014

Il Pane di vita

James Tissot, 1836-1902 I sommi sacerdoti interrogano Gesù

Vangelo di Giovanni (Gv 6,24-59)

Quando dunque la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù. Trovatolo di là dal mare, gli dissero: "Rabbì, quando sei venuto qua?". Gesù rispose: "In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell'uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo". Gli dissero allora: "Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?". Gesù rispose: "Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato".
Allora gli dissero: "Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo". Rispose loro Gesù: "In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo". Allora gli dissero: "Signore, dacci sempre questo pane".
Gesù rispose: "Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete. Vi ho detto però che voi mi avete visto e non credete. Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell'ultimo giorno".
Intanto i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: "Io sono il pane disceso dal cielo".
E dicevano: "Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?". Gesù rispose: "Non mormorate tra di voi.
Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno.
Sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo".
Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?".
Gesù disse: "In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.
Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno".
Queste cose disse Gesù, insegnando nella sinagoga a Cafarnao.

Prima lettera di Giovanni

  

Giovanni 1 - Capitolo 1 
 

Il Verbo incarnato e la comunione con il Padre e il Figlio

[1]Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita [2](poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), [3]quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. [4]Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta.

I. CAMMINARE NELLA LUCE

[5]Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. [6]Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. [7]Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato.

Prima condizione: rompere con il peccato

[8]Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. [9]Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa. [10]Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi.
Giovanni 1 - Capitolo 2 
[1]Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. [2]Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo.

Seconda condizione: 

osservare i comandamenti, soprattutto quello della carità

[3]Da questo sappiamo d'averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. [4]Chi dice: «Lo conosco» e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; [5]ma chi osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto. Da questo conosciamo di essere in lui. [6]Chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato.
[7]Carissimi, non vi scrivo un nuovo comandamento, ma un comandamento antico, che avete ricevuto fin da principio. Il comandamento antico è la parola che avete udito. [8]E tuttavia è un comandamento nuovo quello di cui vi scrivo, il che è vero in lui e in voi, perché le tenebre stanno diradandosi e la vera luce gia risplende. [9]Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. [10]Chi ama suo fratello, dimora nella luce e non v'è in lui occasione di inciampo. [11]Ma chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi.

Terza condizione: guardarsi dal mondo

[12]Scrivo a voi, figlioli,
perché vi sono stati rimessi i peccati in virtù del
suo nome.
[13]Scrivo a voi, padri,
perché avete conosciuto colui che è fin dal
principio.
Scrivo a voi, giovani,
perché avete vinto il maligno.
[14]Ho scritto a voi, figlioli,
perché avete conosciuto il Padre.
Ho scritto a voi, padri,
perché avete conosciuto colui che è fin dal
principio.
Ho scritto a voi, giovani,
perché siete forti,
e la parola di Dio dimora in voi e avete vinto il
maligno.
[15]Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui; [16]perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. [17]E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!

Quarta condizione: guardarsi dagli anticristi

[18]Figlioli, questa è l'ultima ora. Come avete udito che deve venire l'anticristo, di fatto ora molti anticristi sono apparsi. Da questo conosciamo che è l'ultima ora. [19]Sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; ma doveva rendersi manifesto che non tutti sono dei nostri. [20]Ora voi avete l'unzione ricevuta dal Santo e tutti avete la scienza. [21]Non vi ho scritto perché non conoscete la verità, ma perché la conoscete e perché nessuna menzogna viene dalla verità. [22]Chi è il menzognero se non colui che nega che Gesù è il Cristo? L'anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio. [23]Chiunque nega il Figlio, non possiede nemmeno il Padre; chi professa la sua fede nel Figlio possiede anche il Padre.
[24]Quanto a voi, tutto ciò che avete udito da principio rimanga in voi. Se rimane in voi quel che avete udito da principio, anche voi rimarrete nel Figlio e nel Padre. [25]E questa è la promessa che egli ci ha fatto: la vita eterna.
[26]Questo vi ho scritto riguardo a coloro che cercano di traviarvi. [27]E quanto a voi, l'unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi insegna.
[28]E ora, figlioli, rimanete in lui, perché possiamo aver fiducia quando apparirà e non veniamo svergognati da lui alla sua venuta. [29]Se sapete che egli è giusto, sappiate anche che chiunque opera la giustizia, è nato da lui.
Giovanni 1 - Capitolo 3 

II. VIVERE DA FIGLI DI DIO

[1]Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui. [2]Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.

Prima condizione: rompere con il peccato

[3]Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro. [4]Chiunque commette il peccato, commette anche violazione della legge, perché il peccato è violazione della legge. [5]Voi sapete che egli è apparso per togliere i peccati e che in lui non v'è peccato. [6]Chiunque rimane in lui non pecca; chiunque pecca non lo ha visto né l'ha conosciuto.
[7]Figlioli, nessuno v'inganni. Chi pratica la giustizia è giusto com'egli è giusto. [8]Chi commette il peccato viene dal diavolo, perché il diavolo è peccatore fin dal principio. Ora il Figlio di Dio è apparso per distruggere le opere del diavolo. [9]Chiunque è nato da Dio non commette peccato, perché un germe divino dimora in lui, e non può peccare perché è nato da Dio.
[10]Da questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, né lo è chi non ama il suo fratello.

Seconda condizione: 

osservare i comandamenti, soprattutto quello della carità

[11]Poiché questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. [12]Non come Caino, che era dal maligno e uccise il suo fratello. E per qual motivo l'uccise? Perché le opere sue erano malvage, mentre quelle di suo fratello eran giuste.
[13]Non vi meravigliate, fratelli, se il mondo vi odia. [14]Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. [15]Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna.
[16]Da questo abbiamo conosciuto l'amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. [17]Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l'amore di Dio? [18]Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità. [19]Da questo conosceremo che siamo nati dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore [20]qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. [21]Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio; [22]e qualunque cosa chiediamo la riceviamo da lui perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quel che è gradito a lui.
[23]Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. [24]Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui. E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato.
Giovanni 1 - Capitolo 4 

Terza condizione: guardarsi dagli anticristi e dal mondo

[1]Carissimi, non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono comparsi nel mondo. [2]Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; [3]ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell'anticristo che, come avete udito, viene, anzi è gia nel mondo. [4]Voi siete da Dio, figlioli, e avete vinto questi falsi profeti, perché colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo. [5]Costoro sono del mondo, perciò insegnano cose del mondo e il mondo li ascolta. [6]Noi siamo da Dio. Chi conosce Dio ascolta noi; chi non è da Dio non ci ascolta. Da ciò noi distinguiamo lo spirito della verità e lo spirito dell'errore.

III. ALLE FONTI DELLA CARITA' E DELLA FEDE

Alle fonti della carità

[7]Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. [8]Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. [9]In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. [10]In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
[11]Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. [12]Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi. [13]Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito. [14]E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo. [15]Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio. [16]Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui.
[17]Per questo l'amore ha raggiunto in noi la sua perfezione, perché abbiamo fiducia nel giorno del giudizio; perché come è lui, così siamo anche noi, in questo mondo. [18]Nell'amore non c'è timore, al contrario l'amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell'amore.
[19]Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo. [20]Se uno dicesse: «Io amo Dio», e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. [21]Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello.
Giovanni 1 - Capitolo 5 

Alla fonte della fede

[1]Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato. [2]Da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti, [3]perché in questo consiste l'amore di Dio, nell'osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi. [4]Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede.
[5]E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? [6]Questi è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con acqua soltanto, ma con l'acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che rende testimonianza, perché lo Spirito è la verità. [7]Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza: [8]lo Spirito, l'acqua e il sangue, e questi tre sono concordi. [9]Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è maggiore; e la testimonianza di Dio è quella che ha dato al suo Figlio. [10]Chi crede nel Figlio di Dio, ha questa testimonianza in sé. Chi non crede a Dio, fa di lui un bugiardo, perché non crede alla testimonianza che Dio ha reso a suo Figlio. [11]E la testimonianza è questa: Dio ci ha dato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio. [12]Chi ha il Figlio ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita.
[13]Questo vi ho scritto perché sappiate che possedete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figlio di Dio.

COMPLIMENTI

La preghiera per i peccatori

[14]Questa è la fiducia che abbiamo in lui: qualunque cosa gli chiediamo secondo la sua volontà, egli ci ascolta. [15]E se sappiamo che ci ascolta in quello che gli chiediamo, sappiamo di avere gia quello che gli abbiamo chiesto.
[16]Se uno vede il proprio fratello commettere un peccato che non conduce alla morte, preghi, e Dio gli darà la vita; s'intende a coloro che commettono un peccato che non conduce alla morte: c'è infatti un peccato che conduce alla morte; per questo dico di non pregare. [17]Ogni iniquità è peccato, ma c'è il peccato che non conduce alla morte.

Riassunto dell'epistola

[18]Sappiamo che chiunque è nato da Dio non pecca: chi è nato da Dio preserva se stesso e il maligno non lo tocca. [19]Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del maligno. [20]Sappiamo anche che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l'intelligenza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio e nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna.
[21]Figlioli, guardatevi dai falsi dei!

IL DIGIUNO

PRESENTAZIONE

È possibile parlare di digiuno e di rinunce all'uomo del terzo millennio? A questo stesso uomo la cultura dominante e i mezzi di comunicazione di massa, che di essa danno rappresentazione, propongono uno stile di vita che mira a tutti i costi all'elevazione della "dignità socia­le" dell'uomo, spesso a scapito della sua più profonda "dignità umana"; uno stile di vita costruito sul benessere a tutti i costi, sul consumismo e sullo spreco, sull'immagine e sugli status symbol.
Con questa sua efficacissima riflessione, che ci inter­pella nel profondo, padre Raniero Cantalamessa intervie­ne sul tema del digiuno proponendo l'attualità, la neces­sità e la fecondità di questa pratica che porta il cristiano sulla strada della conversione e dell'intercessione.
Diverse sono le modalità del digiuno e non si limitano soltanto all'astinenza dal cibo: quanti pensieri e parole, quante azioni, quante letture e immagini, quanti discorsi e giudizi, quanti lussi e sprechi frenano il cammino spiri­tuale del cristiano e lo assimilano al mondo e alle sue logiche. I suggerimenti di padre Raniero riconducono la pratica del digiuno, in tutti i suoi possibili aspetti, a una misura alta della vita cristiana, laddove il digiuno e l'asti­nenza assumono valenze "profetiche" se legati alla pra­tica della giustizia e alla ricerca dell'unità.
Già la Didachè, il più antico catechismo cristiano noto come dottrina dei dodici apostoli, reclamava il primato del digiuno, considerandolo esso stesso un modo di pre­gare, da offrire al Signore «per quelli che ci perseguitano» (cf Did. 1, 3). Come non ricordare, poi, che i Padri della Chiesa e tutta la tradizione apostolica hanno sempre sostanziato il digiuno e le rinunce offerte a Dio con altri aspetti fondamentali della vita cristiana: «Misericordia e pietà sono le ali del digiuno... Il digiuno senza miseri­cordia è simulacro della fame, è apparenza senza valore della santità. Senza pietà il digiuno è occasione di avari­zia... Quando digiuniamo, fratelli, riponiamo il nostro pasto nella mano del povero» (Pier Crisologo, vescovo del V sec., "Omelia VIII, Sul digiuno della Quinquagesima ").
Trovano spazio, all'interno del testo, alcune riflessioni sull'argomento, offerte da Giovanni Paolo II in diverse occasioni, nonché un discorso tenuto da Sant'Agostino, forse nel 411. In entrambi i casi, la santa pratica del digiuno è puntualmente ricollegata alla conversione, all'elemosina, alla giustizia, all'unità; Agostino, poi, approfitta dell'argomento per affrontare alcuni temi relativi al paganesimo e, soprattutto, ad alcune eresie che ricorre­vano in maniera impropria alla pratica del digiuno.
Per concludere, vogliamo ancora ricordare Pier Crisologo, il quale afferma che il digiuno è «il timone della vita umana», che «permette alla barca della nostra vita di essere guidata dal soffio dello Spirito Santo» (Ibid.).
Ci sembra necessario riflettere su questo tema, in un momento storico nel quale l'uomo ha estremo bisogno di essere ricondotto alle ragioni della vita cristiana e al senso più profondo del suo "non rinnegare la fede in Cristo Gesù" nelle sante pratiche ereditate dai nostri Padri, affinché la Chiesa prenda il largo sì - come Giovanni Paolo II auspica - ma verso le mete e i sicuri approdi indicati dal vangelo di Cristo Gesù.

PREGHIERA INIZIALE

Padre Santo e misericordioso, Dio dei nostri padri, guarda a noi che viviamo nella speranza questo giorno di digiuno perché dalla mensa più parca nascano opere di carità in favore della pace; moltiplica, ti supplichiamo, i frutti della nostra penitenza, convertili in benedizione per quanti vivono nel bisogno e nella precarietà e fecondali con l'azione del tuo Santo Spirito perché diventino semi di ricostruzione e di riconciliazione.
Giovanni Paolo II,
RITORNATE A ME... CON DIGIUNI PIANTI E LAMENTI (G12, 12)
Meditazione tenuta da padre Raniero Cantalamessa alla Casa Pontificia nel giorno di digiuno del 14 dicembre 2001.
 

I

IL DIGIUNO COME EVENTO

Il vangelo riferisce il seguente episodio:
... i discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Si recarono allora da Gesù e gli dissero: «Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?» Gesù disse loro: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. Ma verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno... » (Mc 2, 18-22).
La domanda del vangelo potrebbe risuonare, ai nostri giorni, in altra forma: «Perché i discepoli di Budda e di Maometto digiunano e i tuoi discepoli non digiunano?». E noi non potremmo trincerarci più dietro la risposta che dà Gesù nel vangelo, perché lo Sposo è stato ormai "tolto da noi" (anche se, in altro senso, sappiamo che è sempre presente in mezzo ai suoi).
È necessario riscoprire l'anima di questa pratica e rimetterla in onore nell'autentico spirito della Bibbia, senza bisogno di mutuare modelli estranei al Cristianesimo e senza dimenticare che, tra i cristiani, ci sono tanti che anche oggi praticano il digiuno, "in segreto", come raccomandava Gesù.
Nella Bibbia troviamo due specie di digiuno: un digiuno ascetico e un digiuno profetico, il digiuno come rito e il digiuno come evento. Il digiuno rituale è quello prescritto dalla legge o osservato, per tradizione, in tempi e modalità stabilite e uguali per tutti. Il digiuno profetico è quello indetto una tantum, come risposta a un preciso invito di Dio attraver­so i profeti, in occasioni di particolare gravità e necessità.
La Scrittura è molto parca circa il digiuno rituale. L'unico digiuno prescritto come obbligatorio dalla Legge mosaica era il digiuno del giorno della Grande espiazione, lo Yom Kippur (cf Lv 16, 29). La tradizione posteriore aveva aggiunto alcuni digiuni supplementari in ricordo di eventi luttuosi della storia del popolo d'Israele (cf Zc 7, 3-5; 8, 19). Al tempo di Cristo si digiunava regolarmente due volte la settimana, il lunedì e il giovedì, ed è proprio in occasione di uno di questi digiuni supplementari che avviene l'inci­dente ricordato sopra.
Maggior rilievo occupa invece nella Bibbia il digiuno profetico o come evento. Mosè digiuna quaranta giorni e quaranta notti prima di ricevere le tavole della Legge (cf Es 34, 28), Elia prima dell'incontro con Dio sull'Oreb (cf 1 Re 19, 8), Gesù prima di iniziare il suo ministero. Il re di Ninive indice uno di questi digiuni in risposta alla predicazione di Giona (Gn 3, 7 ss).
Ma il caso più tipico di questo digiuno è quello che si legge in Gioele e che la Chiesa ci fa riascoltare ogni anno, all'inizio della Quaresima:
Suonate la tromba in Sion, proclamate un digiuno, convocate un'adunanza solenne. Radunate il popolo, indite un'assemblea, chiamate i vecchi, riunite i fanciulli, i bambini lattanti; esca lo sposo dalla sua camera e la sposa dal suo talamo (GI 2, 15-16).
 
II
TEMPO DI RITORNO
Dobbiamo allora cercare di scoprire qual è l'anima del digiuno-evento. Essa è espressa nelle parole che introdu­cono l'oracolo di Gioele:
Or dunque - parola del Signore - ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché egli è misericordioso e benigno, tardo all'ira e ricco di benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura (G12, 12-14).
Il senso fondamentale di questo tipo di digiuno è dun­que di essere espressione comunitaria della volontà di conversione. Anche dei non credenti possono aderire ad esso come risposta a quell'appello che la Chiesa estende, sempre più spesso, oltre i suoi confini, agli "uomini di buona volontà". Ma non basterebbe per noi credenti, anzi sarebbe sprecare del tutto l'occasione.
Come al tempo di Gioele o di Giona, quella di oggi è una chiamata al ravvedimento, alla resipiscenza, a un "ritorno" collettivo a Dio. È, del resto, il senso fondamen­tale della parola conversione (shub), che in ebraico vuol dire proprio tornare sui propri passi, rientrare nell'alleanza violata con il peccato. In Geremia leggiamo una specie di piccolo poema sulla conversione come ritorno, ricco di immagini tratte dalla natura:
«Così dice il Signore: Forse chi cade non si rialza e chi perde la strada non torna indietro? Perché allora questo popolo si ribella con continua ribellione? Persistono nella malafede, rifiutano di convertirsi...
Nessuno si pente della sua malizia, dicendo: Che ho fatto?
Ognuno segue senza voltarsi la sua corsa come un cavallo che si lanci nella battaglia. Anche la cicogna nel cielo conosce i suoi tempi; la tortora, la rondinella e la gru osservano la data del loro ritorno; il mio popolo, invece, non conosce il comando del Signore... » (Ger 8, 4-7).
Se il peccato, nella sua più intima essenza, è una "aver­sio a Deo", un "voltare le spalle a Dio" (cf Ger 2, 27), per volgersi verso le creature o ripiegarsi su se stessi, il cammi­no inverso dovrà per forza configurarsi come un ritorno.
Ma cosa può significare questa parola, rivolta a una società come la nostra, che appena sente parlare di "ritorno" pensa subito che la si voglia far tornare indietro dalle sue conquiste, toglierle libertà e riportarla al Medio evo? La nostra società ha liquidato la religione come un feno­meno del passato, sostituito oggi dalla tecnica. In un fascicolo della rivista MicroMega, uscito nell'Anno giu­bilare e dedicato al problema di Dio, un noto intellettuale scriveva: «La religione morirà. Non è un auspicio, né tanto meno una profezia. È già un fatto che sta attendendo il suo compimento... Passata la nostra generazione e forse quella dei nostri figli, nessuno più considererà il bisogno di dare un senso alla vita un problema davvero fondamentale... La tecnica ha portato la religione al suo crepuscolo».
Ma ecco che bruscamente si è costretti a prendere atto che la religione non è finita affatto, che è ancora una forza primaria; che, come l'energia nucleare, può essere o som­mamente benefica o sommamente distruttiva. («Corruptio optimi pessima», dicevano gli antichi: la cosa migliore, se si corrompe, diventa la peggiore). Si era ritenuta la reli­gione una "sovrastruttura" del fattore economico ed ecco che si rivela invece qualcosa di irriducibile ad esso, un fattore di coesione, nel bene e nel male, più forte della stessa idea di classe.
Sul mensile Jesus lo scrittore cattolico Ferruccio Parazzoli notava che, davanti a questi fatti, l'uomo occi­dentale si è precipitato in libreria in cerca di libri - Corano o altro - che l'aiutassero a capire chi erano gli uomini che, tragicamente o pacificamente, scopriva improvvisamente di avere di fronte: come è fatta la loro anima, in che cosa credono. Per fare questo, però, si è reso conto che era altrettanto necessario conoscere la propria anima, in che cosa crediamo noi. E qui la sorpresa: non abbiamo più un'anima; l'occidente opulento ha perso la sua anima cristiana, crede di poterne fare a meno. A parlare di anima in un mondo tecnologico si avrebbe lo stesso successo che ebbe Paolo quando parlò della risurrezione ai dotti ateniesi. Scopriamo la nostra civiltà come una civiltà idolatra.
Se è così, l'appello al ravvedimento da far giungere al nostro mondo - certo, con rispetto e amore - è lo stesso che Elia rivolse al popolo d'Israele, dopo che questo aveva abbandonato la religione dei padri per darsi agli idoli: Fino a quando zoppicherete con i due piedi? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui! (1 Re 18, 21).
Nella versione di Gesù: Non potete servire a due padroni (cf Mt 6, 24). Oggi gli idoli non hanno più nomi propri, Baal, Astarte, hanno nomi comuni: denaro, lusso, sesso, ma la sostanza non è cambiata. L'appello al ritorno a Dio deve prendere, nei paesi cristiani, tutt'altra direzione che quella della "guerra santa": deve essere una guerra ad intra, non ad extra; un entrare in lotta con se stessi, una conversione, non un'aggressione. Questa è l'unica idea di guerra santa, compatibile con lo spirito del vangelo.
Nell'invitare i nostri contemporanei a tornare a Dio, dobbiamo far leva su una convinzione comune anche a molti di loro. La strada che si è imboccata non porta da nessuna parte; non porta alla vita, ma alla morte. Una parola di Dio in Ezechiele sembra scritta per tutti coloro che da versanti opposti - dal nichilismo occidentale o dal terrorismo suicida - flirtano con la morte e il nulla: Perché volete morire, o Israeliti ? (Ez 18, 31). Perché questa voluptas moriendi, questo "istinto di morte" come lo ha chiamato il Papa nel messaggio per la giornata della pace, svoltasi il 14 dicembre 2001?'
Ma noi non siamo qui, in questo momento, per occu­parci degli altri, della società intorno a noi, ma di noi. L'oracolo di Gioele chiama in causa direttamente i pastori e le guide del popolo; dice: ...Tra il vestibolo e l'altare piangano i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano: «Perdona, Signore, al tuo popolo e non esporre la tua eredità al vituperio e alla derisione delle genti».
Perché si dovrebbe dire fra i popoli: «Dov'è il loro Dio?» (G12, 17).
Due cose vengono richieste ai sacerdoti: conversione e intercessione. Insieme con gli altri essi sono chiamati alla conversione, a favore degli altri alla intercessione. Accogliamo l'invito come fosse rivolto direttamente a noi, in questo preciso momento della storia, e meditiamo un po' sulle due cose: primo sulla nostra conversione e poi sul nostro dovere di intercessione.
Il ritorno a Dio e la conversione, come il giudizio, «incipit a domo Dei», deve cominciare dalla casa di Dio (cf 1 Pt 4, 17). Non ci sarà un moto di ravvedimento e di risveglio della fede se non comincia da noi, se non siamo i primi a metterci in cammino.
Ma cosa significa l'appello al ritorno rivolto a noi? Ritorno da dove? Ravvedimento da che cosa? Per scoprirlo basta che ci poniamo qualche domanda a modo di esame di coscienza:
Che cosa rappresenta, in realtà (non solo a parole), Dio nella mia vita?
Occupa egli davvero il primo posto nei miei pensieri, desideri, discorsi?
Sappiamo quanto sia facile costruirsi degli idoli anche nel servizio di Dio e della Chiesa: lavoro, carriera, presti­gio, riposo... Non oserei formulare qui, a voce alta, queste domande, se non le avessi sentite prima rivolte a me, in altra forma, nei miei esami di coscienza:
«Gesù poteva dire: Io non cerco la mia gloria (Gv 8, 50): tu puoi dire lo stesso? Gesù diceva: Lo zelo per la tua casa mi divora (Gv 2, 17): tu puoi dire lo stesso?
 
III
FRUTTI DEGNI DI CONVERSIONE
Riconoscere di aver bisogno di conversione è già una grazia straordinaria, è il passo decisivo. Ma non basta. Deve seguire qualche gesto concreto che segni il passag­gio dalla velleità al volere. Giovanni Battista diceva ai farisei e ai sadducei: «... Fate dunque frutti degni di con­versione... » (Mt 3, 8).
Un "frutto di conversione" ci viene proposto in partico­lare con il digiuno che può prendere tre forme: «quella di un solo pasto, quella "a pane e acqua", quella in cui si attende il tramonto del sole per assumere cibo».
Ma è ovvio che non tutto deve finire con la giornata dedicata al digiuno. Il digiuno profetico, o come evento, deve servire a rilanciare il digiuno ascetico, come dimen­sione costante della vita cristiana, accanto alla preghiera e alla carità, e, anzi, proprio in funzione della preghiera e della carità.
È vero che il digiuno è facilmente esposto a diverse contraffazioni, ma la Bibbia offre anche la ricetta per preservarlo da esse. Il suo atteggiamento verso il digiuno è sempre di "sì, ma", di approvazione e di riserva critica.
È forse come questo il digiuno che bramo? dice il Signore in Isaia e continua elencando quello che deve accompagnare il digiuno per essere gradito ai suoi occhi: ... Sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi... (cf Is 58, 5-7).
Gesù critica il digiuno fatto con ostentazione (cf Mt 6, 16-18), o per accampare meriti davanti a Dio: «... Digiuno due volte la settimana... » (Lc 18, 12).
Noi siamo molto sensibili oggi alle ragioni del "ma", della riserva critica. Siamo convinti della priorità di "spezzare il pane con l'affamato e vestire l'ignudo". Abbiamo giustamente vergogna di chiamare, il nostro, un "digiuno", quando quello che per noi è il colmo dell'au­sterità - mangiare pane e acqua - per milioni di persone sarebbe già un lusso straordinario, soprattutto se si tratta di pane fresco e acqua pulita.
Quello che dobbiamo riscoprire sono invece le ragioni del "sì", della "utilità del digiuno". Sant'Agostino ha scritto un trattatello proprio con questo titolo, e in esso risponde già ad alcune delle nostre obiezioni moderne:
Il digiuno non vi sembri una cosa di poca importanza o superflua; chi lo pratica, secondo le consuetudini della Chiesa, non pensi fra sé: Che digiuni a fare? Defraudi la tua vita, ti procuri da te stesso una pena... A Dio può piacere che tu ti tormenti? Sarebbe crudele se avesse piacere delle tue pene... Ma tu rispondi così al tentatore: Mi impongo certo una privazione, ma perché egli mi perdoni, per piacere ai suoi occhi, per arrivare a dilettarmi della sua dolcezza.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica dice che il digiuno e l'astinenza «ci preparano alle feste liturgi­che, contribuiscono a farci acquistare il dominio sui nostri istinti e la libertà del cuore». Un prefazio quare­simale fa di esso questo elogio: «Con il digiuno quare­simale tu vinci le nostre passioni, elevi lo spirito, infondi la forza e doni il premio». Il digiuno è soprat­tutto un segno di solidarietà umana e carità cristiana perché conduce l'uomo a vivere volontariamente, e quindi con un amore redentivo, ciò che milioni di uomini vivono forzatamente.
Non si può ridurre tutta l'ascesi cristiana al lavoro e all'accettazione delle difficoltà inerenti alla vita. Questo è necessario, ma non è il segno efficace di un atteggiamento di povertà spirituale, del rifiuto di appog­giarsi sulle sole forze della carne, di umiltà davanti a Dio: tutte cose che sono invece bene espresse dal digiu­no. Il digiuno è importante anche come "segno", per quello che simboleggia, non solo per quello di cui ci si priva (Questo appare chiaro anche nel digiuno dei fratelli musulmani i quali praticano il Ramadan, che è anzitutto un segno pubblico di "sottomissione" a Dio). Pensare diversamente significa cadere in un falso spiritualismo che trascura il significato del composto umano e della necessità che abbiamo di atteggiamenti corporali per suscitare e sostenere la vita profonda dello spirito.
 
IV
DIGIUNI PERSONALIZZATI
Ma non ci dobbiamo illudere: anche nel digiuno, non si torna indietro. Dobbiamo inventare forme di digiuno asce­tico nuove, corrispondenti alla vita di oggi che è diversa da quella di venti o dieci secoli fa. Il digiuno classico, dagli alimenti, è diventato ambiguo nella nostra società. Nell'antichità non si conosceva che il digiuno religioso; oggi esiste un digiuno politico e sociale (scioperi della fame!), un digiuno igienico o ideologico (vegetariani), un digiuno patologico (anoressia), un digiuno estetico per "mantenere la linea".
La forma più necessaria e significativa di digiuno per noi oggi si chiama sobrietà. Privarsi volontariamente di piccole o grandi comodità, di quanto è accessorio o inutile, è comunione alla passione di Cristo; è solidarietà con la povertà di tanti.
È anche contestazione di una mentalità consumistica. In un mondo, che ha fatto della comodità superflua e inutile uno dei fini della propria attività, rinunciare al superfluo, saper fare a meno di qualcosa, frenarsi dal ricorrere sempre alla soluzione più comoda, dallo scegliere la cosa più facile, l'oggetto di maggior lusso, vivere, insomma con sobrietà, è più efficace che imporsi delle penitenze artificiali.
È, oltretutto, giustizia verso le generazioni che seguiranno la nostra che non devono essere ridotte a vivere delle ceneri di quello che abbiamo consumato e sprecato noi. Ha un valore ecologico, di rispetto del creato.
Oggi si ama "personalizzare" tutto: le lettere che si scrivono, gli indumenti che si indossano... Bisogna perso­nalizzare anche il digiuno, proporre dei digiuni persona­lizzati, rispondenti cioè ai bisogni della persona che lo pratica. Un inno della liturgia delle ore in Quaresima ci offre lo spunto per farlo. Dice:
Utamur ergo parcius Verbis, cibis et potibus, Somno, iocis et arctius Perstemus in custodia. Usiamo parcamente di parole, cibi e bevande, del sonno e dei divertimenti. Siamo più vigili nel custodire i sensi.
Non esiste dunque solo il digiuno dai cibi e dalle bevan­de; esiste un digiuno dalle parole, dallo svago, dagli spetta­coli, e ognuno dovrebbe scoprire qual è quello che Dio richiede in particolare da lui, in un certo momento della vita. Tra l'altro, sono i digiuni meno esposti ad essere intaccati dalla vanità e dall'orgoglio, perché nessuno li vede se non Dio. Per qualcuno il digiuno più necessario potrebbe esse­re il digiuno dalle parole. Scrive l'Apostolo:
Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessa­ria edificazione, giovando a quelli che ascoltano (Ef 4, 29).
Sono parole cattive quelle che sparlano del fratello (cf Gc 4, 11), che seminano zizzania; le parole che ten­dono a mettere in buona luce il nostro operato e in cattiva luce l'operato degli altri, le parole ironiche o sarcastiche. Non è difficile imparare a distinguere le parole cattive da quelle buone; basta, per così dire, seguirne, o prevederne, con la mente la traiettoria, vedere dove vanno a parare: se finiscono a nostra gloria, o a gloria di Dio e del fratello, se servono a giustificare, commiserare e far valere il mio "io", o invece quello del prossimo.
Per altri, più importante di quello dalle parole, è il digiuno dai pensieri. Mi spiego con le parole con un ano­nimo monaco certosino dei nostri giorni:
Osserva per un solo giorno, il corso dei tuoi pensieri: ti sor­prenderà la frequenza e la vivacità delle tue critiche interne con immaginari interlocutori, se non altro con quelli che ti stanno vicino. Qual è di solito la loro origine? Questo: lo scontento a causa dei superiori che non ci vogliono bene, non ci stimano, non ci capiscono; sono severi, ingiusti, troppo gretti con noi o con altri oppressi. Siamo scontenti dei nostri fratelli che giudichiamo incomprensivi, cocciuti, sbri­gativi, confusionari, o ingiuriosi...
Allora nel nostro spirito si crea un tribunale, nel quale siamo procuratore, presidente, giudice e giurato; raramente avvocato, se non a nostro favore. Si espongono i torti; si pesano le ragioni; ci si difende; ci si giustifica; si condanna l'assente. Forse si elaborano piani di rivincita o raggiri vendicativi... In fondo sono sussulti dell'amor proprio, giudizi affrettati o temerari, agitazione passionale che si conclude con la perdita della pace interiore.
Ci sono persone che passano ore e ore a masticare certe radici che girano e rigirano nella bocca. Quando indugiamo su questi pensieri somigliamo a loro, solo che quella che succhiamo è una radice velenosa... Ai pensieri di risenti­mento suggeriti dall'amor proprio bisogna sostituire pen­sieri di perdono. Il perdono ha valore terapeutico: guarisce chi lo dà e chi lo riceve.
Per tutti, infine, è indispensabile oggigiorno il digiuno dalle immagini. Viviamo in una cultura dell'immagine: rotocalchi, cinema, televisione, internet... Nessun cibo - dice la Scrittura - per sé è impuro; molte immagini lo sono. Sono il veicolo privilegiato dell'antivangelo: sen­sualità, violenza, immoralità. Sono le truppe speciali del dio Mammona. A Feuerbach è attribuito il detto: «L'uomo è ciò che mangia»; oggi si deve dire: «L'uomo è ciò che guarda». L'immagine ha un incredibile potere di plasmare e condizionare il mondo interiore di chi la riceve. Siamo abitati da quello che facciamo entrare dagli occhi.
Per un sacerdote, un religioso, un annunciatore, questa è ormai una questione di vita o di morte. «Ma, padre - mi obbiettò un giorno uno di loro -, non è Dio che ha creato l'occhio per guardare tutto ciò che di bello c'è nel mondo?». «Sì, fratello, - gli risposi - ma quello stesso Dio che ha creato l'occhio per guardare ha anche creato la pal­pebra per chiuderlo. E sapeva quello che faceva».
 
V
INTERCESSIONE
La seconda cosa che i sacerdoti devono fare, secondo l'oracolo di Gioele, - l'accenno solamente - è intercedere: piangano i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano: «Perdona, Signore, al tuo popolo... ». Tutti ricordiamo il canto gregoriano: «Parce, Domine, parce populo tuo... ». È tratto da qui; sono le parole di Gioele nella versione della Volgata. Nel caso di Gioele, lo scopo era chiedere la fine di calamità naturali, l'invasione delle cavallette e la carestia; ai giorni nostri è chiedere che cessino le calamità indotte dall'uomo - terrorismo e guerra - e si ritrovino le vie della pace.
L'intercessione, in questo caso, deve prendere la forma di un accorato «Da pacem, Domine, in diebus nostris: Concedi la pace ai nostri giorni». Venerdì 7 dicembre 2001 è stata eseguita nell'Aula Paolo VI la Missa pro pace di Wojcieck Kilar con il coro e l'orchestra della Filarmonica nazionale di Varsavia. Il momento di più intensa commozione è stato proprio il finale Dona nobis pacem durato, da solo, quasi sette minuti.
Che significa intercedere? Significa unirsi, nella fede, a Cristo risorto che vive in perenne stato di intercessione per il mondo (cf Rm 8, 34; Eb 7, 25; 1 Gv 2, 1); significa unirsi allo Spirito che con gemiti inesprimibili, intercede per i credenti secondo i disegni di Dio (cf Rm 8, 26-27). La Scrittura mette in rilievo lo straordinario potere che ha presso Dio, per sua stessa disposizione, la preghiera di coloro che ha messo a capo del suo popolo. Dice, una volta, che Dio aveva deciso di sterminare il suo popolo a causa del vitello d'oro, se Mosè non fosse stato sulla breccia di fronte a lui per stornare la sua collera (cf Sal 106, 23). Nei Vespri del comune dei pastori troviamo questa bella invocazione: «Hai perdonato le colpe del tuo popolo per le preghiere di pastori santi che intercedevano come Mosè: per il loro meriti purifica e rinnova sempre la tua Chiesa». Non desistiamo dall'intercedere dicendo: «Tanto non cambia mai nulla, abbiamo bussato tante volte e nessuna porta si è aperta... ». Attento: forse tu hai bussato a una porta di servizio e non ti sei accorto che Dio ti ha aperto il portone principale. Ti sta dando qualcosa di più importante per l'eternità di quello che hai chiesto... Un giorno sco­priremo che nessuna preghiera di intercessione, fatta con fede e umiltà, senza neppure preoccuparsi di verificare se c'è stata o meno una risposta, è andata mai a vuoto. Tanto meno quando si eleva a Dio da tutta la Chiesa per la pace ed è sostenuta dal digiuno...
 

LA PAROLA DI GIOVANNI PAOLO II

PREGHIERA, DIGIUNO E CARITA

«La pace o la violenza germogliano dal cuore dell'uomo, sul quale Dio solo ha potere. Convinti di ciò, i credenti adottano da sempre contro i più gravi pericoli le armi del digiuno e della preghiera, accompagnandoli con opere di carità concreta.
Il digiuno esprime dolore per una grave sventura ma pure la volontà di assumerne in qualche misura la respon­sabilità, confessando i propri peccati e impegnandosi a convertire il cuore e le azioni a una maggiore giustizia verso Dio e verso il prossimo. Digiunando si riconosce con fiduciosa umiltà che un autentico rinnovamento per­sonale e sociale non può che venire da Dio, dal quale tutti radicalmente dipendiamo. Il digiuno consente poi di con­dividere il pane quotidiano con chi ne è privo, al di fuori di ogni pietismo o ingannevole assistenzialismo». (Giovanni Paolo II, Angelus Domini, 9 dicembre 2001)
«Il digiuno deve andare di pari passo con la pre­ghiera, perché essa ci dirige direttamente verso lui [Dio]. D'altronde il digiuno, cioè la mortificazione dei sensi, il dominio del corpo, conferiscono alla preghiera una mag­giore efficacia». (Udienza generale, 21 marzo 1979)
«Sappiamo che la preghiera acquista forza se è accom­pagnata dal digiuno e dall'elemosina. Così insegna già l'Antico Testamento e i cristiani, fin dai primi secoli, hanno accolto questa lezione e l'hanno applicata, partico­larmente nei tempi di Avvento e di Quaresima... Ciò di cui ci si priva nel digiuno potrà essere messo a disposizione dei poveri... ». (Giovanni Paolo II, Angelus Domini, 18 novembre 2001)
 «Le pratiche del digiuno e dell'elemosina, oltre a espri­mere l'ascesi personale, rivestono un'importante valenza comunitaria e sociale: richiamano l'esigenza di "conver­tire" il modello di sviluppo per una più giusta distribuzione dei beni, così da poter vivere tutti dignitosamente». (Celebrazione del Mercoledì santo nella basilica di Santa Sabina, 17 febbraio 1996)
Il digiuno diventa penitenza, cioè conversione a Dio, in quanto purifica il cuore dalle tante scorie del male, abbellisce l'anima di virtù, allena la volontà al bene, dilata il cuore ad accogliere l'abbondanza della divina grazia». (Ai giovani in piazza San Pietro, 21 marzo 1979)
Il digiuno penitenziale, tra gli altri significati, ha quello di aiutarci in un recupero dell'interiorità. Lo sforzo di moderazione del cibo si estende alle altre cose non neces­sarie, ed è di grande sostegno alla vita dello spirito. Sobrietà, raccoglimento e preghiera vanno di pari passo». (Angelus Domini, 10 marzo 1996)


UTILITÀ DEL DIGIUNO
Fame degli uomini, fame degli angeli, fame e sete di giustizia
Dire qualcosa sul digiuno è un'ispirazione divina e anche il tempo dell'anno ci invita a farlo. È un'osser­vanza questa, una virtù dell'animo, un vantaggio dello spirito a spese della carne, e non può essere oggetto di offerta a Dio da parte degli angeli. In cielo vi è ogni abbondanza e sazietà eterna. Lì non manca nulla perché in Dio si appaga ogni desiderio. Lì il pane degli angeli è Dio, che si è fatto uomo perché anche l'uomo potesse cibarsene. Qui tutte le anime, che sono vestite di un corpo terreno, riempiono il ventre dei frutti della terra, là gli spi­riti razionali, che governano corpi celesti, riempiono di Dio le loro menti. Tanto qui che lì vi è un cibo. Ma questo cibo nostro nel momento stesso che ristora viene meno; diminuisce nella misura in cui riempie. Quello invece rimane integro anche quando riempie. Bisogna aver fame di quel cibo. Lo prescrive Cristo quando dice: Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati. Nel corso della vita terrena compete agli uomini aver fame e sete di giustizia, ma esserne appagati appartiene all'altra vita. Gli angeli si saziano di questo pane, di questo cibo. Gli uomini invece ne hanno fame, sono tutti protesi nel desiderio di esso. Questo protendersi nel desiderio dilata l'ani­ma, ne aumenta la capacità. Fatti più capaci a suo tempo saranno appagati. Che dire allora? Che su questa terra non ricevono alcun appagamento quelli che hanno fame e sete di giustizia? Sì che ricevono qualcosa, ma un conto è la refezio­ne del viandante, un altro la perfezione dei beati. Ascolta l'Apostolo, che ha fame e sete, e certamente di giustizia, la più che se ne può raggiungere in questa vita, la più che se ne può praticare. Nessuno oserebbe confrontarsi con lui nonché ritenersi superiore. Dice dunque: Non che io abbia già acqui­stato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione. E consi­derate chi è che parla: il Vaso di elezione, l'estremo lembo, per così dire, del vestito del Salvatore, una estrema frangia che tuttavia sana chi la tocca, come la donna che pativa per­dite di sangue, perché aveva fede. È l'ultimo e il più piccolo degli apostoli, come egli stesso dice:
Io sono l'ultimo degli apostoli, e: Io sono l'infimo degli apostoli, e ancora: Non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Ma per grazia di Dio sono quello che sono e la sua grazia in me non è stata vana, anzi ho faticato più di tutti loro; non io però ma la grazia di Dio con me.
Ascoltando queste parole, ti sembra di ascoltare uno che è ripieno di grazia, al colmo della perfezione. Ma se l'hai ascoltato quando è sazio, ascolta di che cosa ha ancora fame. Dice:
Non che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione, e: Fratelli, io non ritengo di aver raggiunto la meta, ma una cosa sì: dimentico del passato e proteso verso il futuro corro verso la meta, per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere in Cristo Gesù.
Dice di non essere ancora perfetto, di non avere ancora ricevuto, di non avere ancora raggiunto. Ma dice di essere proteso in avanti; di correre verso il premio della chiamata superna. È in viaggio; ha fame, vuol essere saziato, si affretta, desidera giungere, brucia: nulla gli tarda quanto essere sciolto dal corpo per essere con Cristo.
 
Alimento terreno, alimento celeste
Dunque, carissimi, come c'è un alimento terreno, di cui si nutre la carne debole, c'è anche un alimento celeste di cui si ricolma l'anima pia. L'uno e l'altro hanno un ruolo vitale: l'uno per gli uomini, l'altro per gli angeli. Tengono un luogo intermedio gli uomini di fede; distinti nel loro animo dalla turba degli infedeli. Essi sono protesi verso Dio, e a loro va il richiamo: In alto il cuore, per­ché hanno la speranza di un'altra vita e sanno che in questo mondo sono di passaggio. Essi non si possono confrontare con quelli che ritengono essere un bene solo il godimento dei piaceri terreni e neppure con quegli altri che abitano le supreme sedi del cielo, la cui sola delizia è quel Pane stesso da cui sono stati creati. Quelli che sono chini sulla terra, in cerca di cibo e di piacere che riguardi la sola carne, sono da paragonarsi agli animali. Distano di gran lunga dagli angeli per la condizione obiettiva e per il costume morale: per la condizione, per­ché sono mortali; per il costume, perché sono sensuali. Fra quel popolo celeste e quello terrestre era in certo modo sospeso l'Apostolo; là s'incamminava, di là ritor­nava, là tendeva da qui sollevandosi. Non poteva ancora dirsi partecipe di quel popolo, perché allora avrebbe detto: «Sono nella perfezione»; né era con questi uomini pigri, inerti, fiacchi, sonnolenti, che non credono se non in ciò che vedono e in ciò che passa, e che sono nati e che moriranno. Se si ritenesse della loro schiera non direb­be: Corro al premio della superna chiamata. Dobbiamo dunque regolare i nostri digiuni. Questo non è, come ho detto, un adempimento angelico e neanche lo è di quegli uomini che sono schiavi della gola. È un atto proprio alla via di mezzo, la nostra, per cui viviamo distinti da chi non ha fede e con l'aspirazione di essere uniti agli angeli. Non siamo ancora giunti, ma siamo in cammino; non abbiamo ancora quella felicità, ma di qui vi sospiria­mo. Qual è l'utilità di astenersi un poco dal cibo e dal piacere della carne? La carne preme contro il suolo, la mente tende all'alto; è trasportata dall'amore, è ritardata dal peso. A questo proposito dice la Scrittura:
Il corpo soggetto a corruzione appesantisce l'ani­ma e l'abitazione terrena dei sensi grava la mente dai molti pensieri".
Se dunque la carne china sulla terra è un peso all'ani­ma, un bagaglio che appesantisce il suo volo, quanto più uno ripone le sue gioie nella sua vita superiore, tanto più depone del suo bagaglio terreno. Ecco che cosa facciamo quando digiuniamo.
 
Necessità del digiuno
Il digiuno non vi sembri una cosa di poca importanza o superflua, chi lo pratica, secondo le consuetudini della Chiesa, non pensi fra sé, non dica fra sé, ascoltando il tenta­tore che suggerisce nell'intimo: «Che cosa digiuni a fare?" Defraudi la tua vita, non le dai ciò che le fa piacere; ti pro­curi da te stesso una pena, ti fai carnefice e tormentatore di te stesso. A Dio può piacere che tu ti tormenti? Sarebbe crudele se avesse piacere delle tue pene». Ma tu rispondi così al tentatore: «Mi do certo un supplizio, ma perché egli mi perdoni, da me stesso mi castigo perché egli mi aiuti, per piacere ai suoi occhi, per arrivare al diletto della sua dolcezza. Anche la vittima è tormentata, per essere posta sull'altare. Così la mia carne appesantisce meno il mio spirito». A questo cattivo consigliere, schiavo del ventre, rispondi con questo esempio: «Se tu, per caso, cavalcassi un giumento, se montassi un cavallo che con la sua andatura sfrenata ti potesse far cadere, per fare un viaggio tranquillo non razioneresti il cibo a quel furente, non cercheresti di domare con la fame quello che non rie­sci a domare col morso? La mia carne è il mio giumento mentre faccio il viaggio verso Gerusalemme, spesso mi porta via, cerca di buttarmi fuori dalla strada. La mia via è Cristo. Non dovrò dunque frenare con il digiuno la bestia che va a sbalzi?». Se qualcuno capisce ciò, può verificare con la sua stessa esperienza quanto sia utile il digiuno. Ma questa carne, che ora e domata, lo dovrà essere sempre? Finché oscilla nella situazione temporale, finché è appesantita dalla condizione di mortalità, ha questi sbalzi, ben visibili e pericolosi al nostro spirito. La carne qui infatti è ancora corruttibile, non è ancora risorta. Il fatto è che non sempre sarà così; adesso non ha ancora lo stato proprio della costituzione celeste, non siamo ancora resi uguali agli angeli di Dio.
 
Carne e spirito
Ma non pensi, la vostra dilezione, che la carne sia nemica dello spirito, quasi che uno sia l'autore della carne e un altro quello dello spirito. Molti, soggetti alla carne, seguendo questa opinione deviarono ritenendo che uno fosse l'autore della carne e un altro quello dello spirito. Per di più si avvalgono, senza comprenderla appieno, di una testimonianza apostolica: La carne ha desideri con­trari allo spirito e lo spirito ha desideri contrari alla carne. Ciò e vero, ma osserva anche quest'altro passo: Nessuno ha mai in odio la propria carne, ma la nutre e la riscalda, come Cristo la Chiesa. Nel primo passo citato sembra di vedere come una lotta fra due nemici, la carne e lo spirito, perché la carne ha desideri contrari allo spi­rito, e lo spirito ha desideri contrari alla carne. In questo secondo passo invece vi è quasi un'unione coniugale: Nessuno ha mai in odio la propria carne, ma la nutre e la riscalda, come Cristo la Chiesa. Come ci comporteremo di fronte a questi due pareri? Se sono contrari, quale accetteremo, quale rifiuteremo? Il fatto è che non sono contrari. Stia attenta la carità vostra, io intanto li accetto tutti e due e dimostrerò, per quanto mi è possibile, che concordano. Chiunque sia tu che stabilisci un creatore della carne e un altro dello spirito, che ne pensi del passo che dice: Nessuno ha mai in odio la propria carne, ma la nutre e la riscalda, come Cristo la Chiesa. Non t'impres­siona il paragone? Nutre dice e riscalda come Cristo la Chiesa. Supponi di credere che la carne sia una catena. E chi ama la sua catena? Supponi che la carne sia un car­cere. E chi ama il suo carcere? Nessuno ha mai in odio la sua carne. Chi non odierebbe di essere incatenato, chi non odierebbe il suo supplizio? E invece: Nessuno ha mai in odio la sua carne, ma la nutre e la riscalda come Cristo la Chiesa. Se dunque tu poni un autore alla carne e un altro allo spirito, ne consegue che devi porne uno a Cristo e un altro alla Chiesa. Il che, per chi sa, è una sciocchezza. Dunque ognuno ama la sua carne. Lo dice l'Apostolo, e oltre alle parole dell'Apostolo, c'è l'esperienza persona­le. Puoi essere padrone della tua carne finché vuoi, puoi accenderti di severità contro di essa; ma se qualcuno sta per darti un colpo, tu chiudi gli occhi.
È come una specie di matrimonio tra lo spirito e la carne. Come si spiega che la carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito contrari alla carne`? Come si spiega questo castigo che proviene da una propaggine della morte? Perché è detto: Tutti muoiono in Adamo? Perché l'Apostolo dice: Siamo stati anche noi una volta, per natura, figli d'ira, come gli altri. Egli ricevette sen­tenza di morte: da lui siamo nati; da lui deriviamo questa carne che dobbiamo vincere. E così abbiamo desideri con­tro la carne, per sottometterla a noi: domata per portarla a ubbidienza. Ma noi non odiamo chi vogliamo semplice­mente che ci ubbidisca. Ciascuno dà per lo più una regola alla moglie, in casa; cerca di farla ubbidire se è renitente, ma non perseguita una nemica. Cerchi di domare anche il figlio, perché ti ubbidisca. Forse che lo odi, lo ritieni forse un nemico? Ami e castighi anche il tuo servo e nel punirlo lo rendi ubbidiente. Su questo argomento hai un pensiero chiaro e completo dell'Apostolo: Non corro - dice - come chi è senza meta; non faccio il pugilato come uno che batte l'aria, ma tratto dura­mente il mio corpo e lo trascino in servitù, perché non succeda che dopo aver predicato agli altri, venga io stesso squalificato.
La carne ha, per la sua condizione terrena, certi suoi appetiti: su questi puoi esercitare un freno. Se ti lasci diri­gere da chi sta sopra di te, puoi ben dirigere chi sta sotto di te. Sotto di te c'è la tua carne; sopra di te il tuo Dio. Sei ammonito in che modo ti competa servire il tuo Dio quando vuoi che la tua carne serva a te. Tu fai attenzione a quello che ti sta sotto. Osserva anche quello che ti sta sopra. Tu non hai potere sul dipendente se non in quanto ti viene dal superiore a te. Sei servo, hai un servo. Ma il Signore ha due servi. Il tuo servo è più nel potere del Signore che nel tuo. Dunque, tu vuoi essere ubbidito dalla carne. Ma essa non lo può in tutto. In tutto ubbidisce al suo Signore ma non a te. Tu mi domandi spiegazione. Tu cammini, muovi i piedi. Essa ti segue. Ma camminerà con te per tutto il tempo che tu vorresti? È animata da te. Ma forse fino a quando tu vorresti? E anche: stai male quando vuoi, stai bene quando vuoi? Il tuo Signore ti tiene per lo più in esercizio per mezzo di questo tuo servitore, perché come hai disprezzato lui meriti di essere corretto per mezzo del servo.
 
Necessità del dominio sui sensi
Questo problema in che senso ti riguarda? Nel non abbandonarti al piacere della carne fino all'illecito e qual­che volta nel mettere un freno anche a ciò che è lecito. Chi non mette mai un freno alle cose lecite è contiguo alle illecite. Come, ad esempio, fratelli, è lecito il matrimonio, illecito l'adulterio; e tuttavia gli uomini temperanti, per tenersi lontani dall'adulterio illecito, pongono un freno anche nel matrimonio lecito. È lecito bere a sazietà, è illecita l'ubriachezza; tuttavia gli uomini morigerati, per tenersi lontani dalla vergogna dell'ubriachezza, reprimono anche, in parte, la loro libertà di farsi sazi. Comportiamoci così, fratelli; siamo temperanti e agiamo coscientemente, tenendo pre­sente il fine del nostro agire. Ponendo una misura al pia­cere della carne, si acquista il piacere dello spirito.
Perciò bisogna considerare quale sia il fine dei nostri digiuni in rapporto al nostro cammino, quale sia il nostro cammino, quale la meta. Infatti anche i pagani qualche volta digiunano; ma non sanno quale è la meta cui ten­diamo noi. Anche i Giudei qualche volta digiunano ma non hanno preso la via che percorriamo noi. È come quando uno doma il suo cavallo ma prende una strada sbagliata. Digiunano anche gli eretici. Vedo il loro comportamento. Domando quale è la loro meta. «Voi digiunate - dico - ma per piacere a chi?». «A Dio», rispondono. «Ma siete sicuri che il dono è accettato?». Bisogna anzitutto considerare questo monito: Lascia il tuo dono e va' prima a riconci­liarti col tuo fratello. Non è corretto domare le proprie membra e dilaniare le membra di Cristo. È stato scritto:
Si sente il clamore di litigi tra di voi e anche provocate e colpite con pugni quelli che stanno sotto la vostra giurisdi­zione. Non è questo il digiuno che voglio, dice il Signore.
Sarebbe dunque da disapprovare il tuo digiuno se tu fossi nel contempo eccessivamente severo col tuo servo. Come si può approvare il tuo digiuno se non riconosci il tuo fratello? Non cerco da che cibo ti astieni, ma che cibo ami. Dimmi che cibo ami perché io possa acconsentire al fatto che tu te ne astenga. Ami il cibo della giustizia? Forse mi risponderai: «Lo amo». Sia dunque manifesta la tua giustizia. Io ritengo cosa giusta infatti che tu adempia al tuo servizio verso il tuo superiore, affinché il tuo dipen­dente lo adempia verso di te. Parlavamo della carne, che è inferiore allo spirito, gli è soggetta; è fatta per essere da lui domata e regolata. Tu ti comporti con essa in modo che ti ubbidisca e le razioni il cibo perché la vuoi a te soggetta. Riconosci chi è maggiore, riconosci chi è superiore, se vuoi che l'inferiore giustamente si sottometta a te.
È un controsenso se la tua carne ubbidisce a te e tu non ubbidisci al tuo Dio. Da essa stessa sei condannato per il fatto che ti ubbidisce. Ubbidendoti fa testimonianza contro di te.
 
L'unità vale più del digiuno
«Ma a quale superiore - mi domandi - si deve ubbi­dire?». Ecco che parla Cristo (tu ti eri detto amante della giustizia): Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri. Ascolta dunque il tuo Signore che comanda di amarci a vicenda. Egli fa un corpo solo di noi tutti, come membra del suo corpo, e il corpo ha un solo capo che è lui, il nostro Signore e Salvatore. Ma tu ti vuoi staccare dalle membra di Cristo. Tu non ami l'unità. Se ti fossi distorto un dito non correresti dal medico perché te lo aggiusti? Il tuo corpo sta bene quando le sue membra si armonizzano tra loro; allora ti chiami sano, allora stai bene. Ma se qualcosa nel tuo corpo è in dissonanza con le altre parti, tu vai a cercare chi ti corregga. Perché dunque non cerchi che si corregga, che ritorni nella compagine delle membra di Cristo, che si armonizzi in questo stesso corpo e nel tuo ciò che è in dissonanza? Certamente rispetto a tutte le altre membra i capelli sono una cosa di minore importanza. Che cosa c'è di più infimo, nel tuo corpo, dei tuoi capelli, di più insignificante, di minor conto? Eppure se vieni mal rasato ti inquieti col barbiere perché il taglio non è uniforme. E invece per le membra di Cristo non ti preoccupi di mantenere l'unità. E allora a che cosa valgono, a che cosa giovano i tuoi digiuni? Arrivi a ritenere che Dio non sia degno di essere servito nell'unità da tutti coloro che credono lui; e tuttavia nel tuo corpo, nelle tue membra, nei tuoi capelli vuoi che questa unità sia osservata. Parlano le tue viscere, le tue membra che portano, contro di te, una vera testimonianza e tu invece ne porti una falsa contro le membra di Cristo.
 
Lo spirito scismatico
Ti sei dissociato dal digiuno dei pagani? Tu lo credi e perciò ti ritieni sicuro. «Io - dici - digiuno per Cristo. Essi per gli idoli e i demoni». Accetto il tuo ragionamento e, in realtà, la distinzione c'è. Ma ecco, come dicevo poc'anzi, in qual modo le tue membra portavano una testi­monianza contro di te, così che ti ammonivo come devi comportarti con le membra di Cristo tuo Dio; e gli stessi pagani, dai quali distingui, il tuo digiuno, ti insegnino qualcosa sull'unità del tuo Cristo.
 
I pagani sono concordi nel culto agli stessi dèi fra loro discordi
Ecco, essi, non divisi tra loro, venerano molti dèi falsi. E noi forse abbiamo trovato l'unico, vero Dio ma in modo tale da non essere nell'unità pur essendo sotto un solo Dio? Essi ne hanno molti e falsi, noi uno solo e vero. Essi sotto molti e falsi non hanno divisione; noi sotto uno e vero non arriviamo a tenere l'unità. Non ti dispiace, non te ne rammarichi, non ti vergogni? C'è di più. I pagani non solo venerano molti dèi falsi, ma anche parecchi fra di loro contrari e nemici. A mo' di esempio ricordiamone alcuni, se non possiamo tutti. Ercole e Giunone erano nemici: erano stati uomini infatti, figliastro lui, matrigna lei. All'uno e all'altro i pagani eressero templi, a Giunone a Ercole. Adorano lui, adorano lei. Vanno ugualmente da Giunone ugualmente da Ercole. Sono concordi nel culto a loro che sono in discordia. Vulcano e Marte sono nemici e ne ha buona ragione Vulcano; ma dammi un giudice che ascolti! Il misero odia l'adulterio della moglie e tuttavia non osa distogliere dal tempio di Marte i suoi devoti. E così adorano l'uno e l'altro. Se dovessero imitare i loro dèi litigherebbe­ro anche i devoti. Vanno invece dal tempio di Marte a quello di Vulcano. Sembrerebbe una sconvenienza. E invece non temono che il marito si adiri perché si viene a lui dal tempio dell'adultero Marte. (Hanno buon senso, sanno che la pietra non può sentire). Ecco, venerandone molti, falsi, diversi, avversi tra loro, tengono tuttavia nel venerarli una certa unità. In questo modo gli stessi pagani, dai quali hai distinto il tuo digiuno, portano una testimo­nianza contro di te. Vieni all'unità, fratello [donatista] ! Noi veneriamo un solo Dio e non abbiamo mai visto il Padre e il Figlio in litigio tra loro. I pagani non vadano in collera con me perché ho detto queste cose dei loro dèi. Perché dovrebbero adirarsi delle mie parole e non piutto­sto dei loro scritti? Questi distruggano prima, se possono, anzi se vogliono. Se non vogliono esserne ammaestrati i grammatici smettano d'insegnare. Si adirerebbe dunque con me [il pagano] in quanto dico le stesse cose per cui paga la scuola affinché il figlio le impari?
 
Adoperarsi per l'unità coi donatisti
Dunque, o carissimi, essi hanno precisamente tali dèi, o meglio li ebbero. Poiché infatti essi non vollero abban­donarli, furono abbandonati da loro. Ci sono molti anche che li abbandonarono e ancora oggi li abbandonano: abbattono i loro templi all'interno del cuore; godiamo di loro in quanto vengono all'unità, non alla divisione. Il pagano non trovi un'occasione che lo induca a non diventare cristiano. Siamo concordi, fratelli, noi che vene­riamo un solo Dio, per poterli in un certo qual modo, con la nostra concordia, esortare ad abbandonare i molti dèi perché vengano alla pace e all'unità venerare un solo Dio. E se per caso, per il fatto che noi cristiani non abbiamo tra di noi l'unità, s'infastidiscono e per questo ci criticano perciò sono lenti e pigri nel venire alla salvezza, li arrin­gherò un poco. Vi dirò io che cosa dovete dir loro. Non preferiscano a noi la loro quasi concordia, non si compiacciano della loro unità. Essi non devono sopportare il nemico che dobbiamo affrontare noi. Questo nemico stesso in sostanza li possiede anche se non sono discordi. Egli li vede adoratori dei falsi dèi li vede servi e servi di demoni. A questo punto che vantaggio c'è per lui se litigano o, per lui, che danno c'è se non litigano? Li possiede comunque così come sono partecipi della stessa credenza vera e falsa, anche se d'accordo tra di loro. Quando si vedrà abbandonato e vedrà molti correre all'unico Dio, lasciare i suoi sacrileghi riti, abbattere i templi, spezzare gli idoli, proibire i sacrifici, allora vedrà di aver perso quelli che teneva in potere, li vedrà allontanarsi dalla sua famiglia, conoscere il vero Dio. Allora che farà? A quali insidie ricorrerà? Sa che non ci può possedere se siamo concordi, che non ci può dividere l'unico Dio, che non può più presentare a noi i falsi dèi. Sa che la nostra vita è la carità, la nostra morte la discordia; perciò ha introdotto liti tra i cristiani, non potendo fabbricare molti dèi per i cristiani; moltiplicò le sette, seminò errori, stabilì gli eretici. Ma tutto quel che ha fatto lo ha fatto con quella paglia di cui parlò il Signore. Ecco la nostra sicurezza: anche se egli infierisce, anche se insidia e semina vari dis­sensi fra i cristiani, e noi invece riconosciamo il nostro Dio, se siamo fedeli a lui concordemente, se manteniamo la fede, siamo al sicuro. Fratelli, il frumento dell'aia non va via o se va via ritorna; il vento della tentazione invece porta via qualcosa della paglia. Onde per noi non si crea via di perdizione ma impegno di esercitazione. E quanta paglia non è portata via ora sarà vagliata nell'ultimo giu­dizio e non va, tutta la paglia, se non nel fuoco. Dobbiamo darci da fare, fratelli, finché siamo in tempo, con quante forze possiamo, con quanta attenzione possiamo, perché, se può avvenire, ritorni magari insieme alla paglia, il fru­mento, purché esso non perisca. Qui è messo alla prova il nostro amore, qui ci viene proposta la grande opera della nostra vita. Non sarebbe individuata la misura del nostro amore ai fratelli, se nessuno fosse messo alla prova; nel giudizio finale non apparirebbe quanto è l'amore se fosse cosa trascurabile l'abisso della perdizione.
 
La coercizione
Diamoci da fare, fratelli, senza sosta con ogni attività, con ogni fatica, con pio affetto verso Dio, verso di loro, fra di noi, perché non succeda che, volendo sopire la loro vec­chia discordia provochino nuove risse fra di noi; sopra ogni cosa siamo attenti a mantenere fra noi fermissimo l'a­more. Essi si sono congelati nelle loro iniquità. Come puoi sciogliere il ghiaccio dell'iniquità, se non ardi della fiam­ma della carità? Non facciamo caso se risultiamo molesti coll'incalzarli. Vediamo quale è il fine: in esso teniamoci sicuri. Forse che li portiamo alla morte e non invece via dalla morte? Assolutamente curiamo queste vecchie ferite, in qualsiasi modo possiamo, ma umilmente; e andiamo cauti perché non venga meno tra le mani del medico colui che viene curato. Che cosa ci sentiamo in dovere di fare se piange il bambino che viene condotto a scuola? E che cosa dobbiamo pensare se uno rifiuta la mano del medico che opera il taglio? Gli apostoli furono pescatori e il Signore disse loro: Vi farò pescatori di uomini". Ma dal profeta è stato detto che Dio prima avrebbe mandato i pescatori, poi i cacciatori". Prima mandò i pescatori, poi manda i cacciatori. Perché i pescatori, perché i cacciatori? Dal profondo abissale mare della superstizione idolatrica sono stati pescati i credenti con le reti della fede. E i cacciatori per­ché furono mandati? Furono mandati perché essi vagavano per monti e colli, cioè per le superbie umane, per gli orgogli terreni. Uno di questi monti è Donato, un altro Ario, un altro Fotino e un altro Novato; erravano i credenti per questi monti; il loro vagare aveva bisogno dei cacciato­ri. Perciò sono stati distribuiti i diversi uffici dei pescatori e dei cacciatori, perché non capiti che costoro ci dicano: «Perché gli apostoli non costrinsero nessuno, non spinsero nessuno?». Il pescatore, in quanto tale, butta le reti in mare e tira su quello che vi è incappato dentro. Il cacciatore invece circonda le selve, scuote i cespugli di rovi e, molti­plicate da ogni parte le minacce, costringe a cadere nelle reti. Non vada né di qua né di là; da qui vienigli incontro, di là urtalo, dall'altra parte spaventalo; non possa evadere, non sfugga. Ma le nostre reti sono vita perché si conservi l'amore. Non preoccuparti di quanto gli puoi essere mole­sto, ma di quanto tu lo ami. Qual è la tua pietà se tu lo risparmi ed egli muore?
Il sonno letargico e il figlio del vecchio morente Fratelli, considerate anche questo paragone, questa similitudine; una sola cosa può in effetti aver molte similitudini. Gli uomini sono strutturati in modo che ognuno vuole una successione nei figli, e non c'è nessuno che non desideri e speri nella sua casa questo ordine: che chi ha generato ceda il posto ai generati ed essi succedano. Tuttavia se un vecchio padre è malato (non faccio il caso del figlio malato assistito dal padre, che invece cerca l'erede, desidera il successore, che lo ha generato perché viva lui morto; non dico questo) dico dunque se il padre è malato, sta per andarsene, vecchio, vicino alla morte, al punto in cui chiede di assecondare l'ordine della natura, quando ormai non ha più niente da sperare, tuttavia se è malato e gli sta vicino con affetto il figlio, e il medico vede che è preso da un sonno nocivo, letale, egli è pazien­te col vecchio che sta per morire, anche per quei pochi giorni che gli restano da vivere; e sta lì il figlio, premuroso vicino al padre, e sente il medico dire: «Quest'uomo può cadere in letargo e poi morire se lo si lascia prendere dal sonno; se volete che viva non deve dormire». E quel sonno nocivo invece lo prende: nocivo e dolce. Ma il figlio ammonito dal medico sta lì attento e, con fastidio del padre, lo sveglia mettendogli le mani addosso; se il sonno è più forte, lo pizzica e, se questo non serve, lo punge. Certamente riesce fastidioso al padre, ma sarebbe empio se non gli desse questo fastidio. In quanto a lui che vorrebbe morire, respinge il figlio molesto col volto cor­rucciato e con la voce alterata: «Lasciami stare, perché mi tormenti?». «È che il medico ha detto che se ti addormenti, muori». Ed egli: «Lasciami stare, voglio morire». Il vec­chio dice: «Voglio morire» e il figlio sarebbe empio se non dicesse: «Io non lo voglio». E si tratta comunque di una vita temporale; né colui a cui riesce molesto il figlio che lo vuol svegliare resta perpetuamente in quella vita, né il figlio che succede al padre che se ne va e muore. Tutti e due passano attraverso di essa, tutt'e due vi trasvo­lano, di passaggio; e tuttavia sarebbero empi se non prov­vedessero a mantenere questa vita temporale a rischio di rendersi molesti a vicenda. Dunque io se vedessi il mio fratello preso da un sonno di cattiva lega, non lo sveglierei per timore di essere molesto a chi sta dormendo e morendo? Lungi da me il fare questo, anche se, lui vivo, è ristretto il mio patrimonio. Nel nostro caso poiché ciò che riceve­remo non si può dividere e anche se si moltiplicano í pos­sessori non diminuisce il patrimonio, non lo terrò desto, sveglio anche se lo infastidisco, sicché privo del sonno di un antichissimo errore, possa godere con me l'eredità del­l'unità? Certo che lo farò. Se sono sveglio lo farò. Se non lo faccio, dormo anch'io.
 
Non si deve dividere l'eredità del Signore
Carissimi, il Signore, mentre parlava alle turbe fu inter­pellato da un tale che gli disse:
Signore, di' a mio fratello che divida con me l'eredità. E il Signore: O uomo, chi mi ha costituito, dimmi, media­tore di eredità tra voi?
Certamente egli non rifiutava di frenare l'avidità ma non voleva diventare giudice in una divisione. In quanto a noi, carissimi, non cerchiamolo come giudice in tali ver­tenze, perché tale non è la nostra eredità. Noi con pura fronte e con buona coscienza interpelliamo il Signore nostro e ognuno gli dica: «Signore, di' a mio fratello non che divida ma che possegga insieme con me l'eredità». Che cosa vuoi dividere, fratello? Quello che il Signore ci ha lasciato non può essere diviso. È forse oro, infatti, che richieda una bilancia per la divisione? È forse argento, è denaro, è bestiame, o sono schiavi, o alberi o campi? Tutte queste cose si possono dividere. Non si può invece dividere: Vi do la mia pace, vi lascio la mia pace. Infine nelle eredità terrene c'è anche il fatto che la divisione produce una diminuzione. Supponi due fratelli sotto uno stesso padre. Tutto ciò che possiede il padre è di ambedue: tutto dell'uno e dell'altro. Per cui se si fa una domanda sulla proprietà e se ad uno di loro ad esempio si chiede: «Di chi è quel cavallo?», egli risponderà: « È nostro». «Di chi quel fondo? quello schiavo?», sempre rispon­derà: «È nostro». Ma se si farà la divisione, diversa è la risposta. «Di chi è quel cavallo?». « È mio». «E questo di chi è?». «Di mio fratello». Ecco che cosa ha fatto la divisione. Non hai guadagnato una parte, ma perso una parte. Dunque anche se avessimo un'eredità che si può dividere non dovremmo dividerla per non diminuire le nostre ricchezze. E certo non vi è cosa più nociva per i figli che voler fare la divisione vivo il padre. Se questo si accingono a fare, se promuovono liti e contese per rivendicare ognuno a sé la propria parte, direbbe il vecchio: «Che cosa fate? Sono ancora vivo, aspettate, un poco, la mia morte, poi fate a pezzi la mia casa». Noi abbiamo come padre Dio. Perché andare in divisioni? Perché andare in liti? Almeno aspettiamo. Se può morire, divideremo.

PREGHIERA CONCLUSIVA

Rispondiamo alla parola di Dio con frutti degni di conversione, rispondiamo con una rinnovata volontà a operare per la pace, rispondiamo con il salutare digiuno fecondato da incessante preghiera. Giovanni Paolo II,