lunedì 30 dicembre 2013

Padre Gianfranco M. Chiti (1921-2004) Il santo militare


Convento di Orvieto (Tr)





La prima notizia della presenza dei cappuccini in Orvieto è del 25 ottobre 1550, quando chiesero al comune un sussidio per acquistare delle coperte. Il Consiglio stanziò subito 5 fiorini.
Inizialmente ebbero un luogo vicino alla chiesa dell’Annunziata. Nel 1551 il Comune deliberò di costruire un convento per i cappuccini in una zona coltivata a vigneto in contrada San Lorenzo fuori le mura, ma poi si decise di acquistare la chiesa e il monastero di San Bernardo, dove i cappuccini si trasferirono nel 1571. La struttura fatiscente fu adattata secondo le esigenze dei cappuccini, con materiale così povero che presto si dovette intervenire per restaurarlo. In questi anni la struttura aveva 23 celle in cui vivevano i religiosi.
Nel 1664 i frati, dietro richiesta insistente del Comune che considerava il convento troppo lontano dalla città e poco sicuro per i religiosi, chiesero il permesso sia ai Superiori che al Papa Alessandro VIII di vendere il convento per trasferirsi in un altro sito, messo loro a disposizione da alcuni cittadini. Ma il permesso non fu mai concesso. Vennero eseguiti, alcuni lavori necessari, come, ad esempio, il rifacimento dei muri della clausura. Nel 1717 fu sistemata la conduttura che da San Gregorio dei padri Gesuiti portavano l'acqua al convento.
I cappuccini furono cacciati dal convento due volte: nel 1810 con decreto di soppressione delle corporazioni religiose firmato da Napoleone (vi tornarono nel 1814, dopo la caduta di Napoleone) e nel 1866 per decreto di soppressione di Vittorio Emanuele II, che si era proclamato re d’Italia.
Solo nel 1897 fu possibile riacquistare il convento ridotto in pessimo stato e bisognoso di grandi restauri. Il 22 ottobre dello stesso anno venne riaperta la chiesa in occasione della festa del Beato Crispino da Viterbo, che vi era vissuto per circa 40 anni.
Nel 1949 a causa del numero esiguo di religiosi il convento di Orvieto venne aggregato a quello di Bagnoregio e nel 1954 fu ceduto al Vescovo della città per adibirlo a sede di villeggiatura del Seminario Diocesano.

In seguito, fino al 1965, l'ala ovest del convento fu adattata ad abitazione per una famiglia di agricoltori. Successivamente tutta la struttura fu venduta al chirurgo orvietano Lucio Urbani che l'acquistò con lo scopo di fare di questo luogo un piccolo cimitero per sé e per i suoi familiari, scegliendo come sepoltura una delle due cappelle della chiesa. Morto il Prof. Urbani, il convento fu ereditato dall'Opera del Duomo. Dopo alterne vicende, caratterizzate in ultimo dalla decisione di cederlo alla Presidenza Nazionale delle ACLI, per interessamento dell'associazione “San Crispino da Viterbo”, nel 1987 il Consiglio Amministrativo della Fabbriceria, l’ “Opera del Duomo di Orvieto”, deliberava la donazione dell'intero complesso ai frati Cappuccini della Provincia Romana, perfezionata il 24 settembre 1991 con regolare atto notarile.
Fino al 1990 il convento, con l'attigua chiesa, era rimasto in stato di abbandono. In quell’anno fu incaricato come custode del convento Padre Gianfranco M. Chiti, che ne ha curato la ricostruzione e il restauro, facendolo tornare ad essere luogo di quiete serena, di preghiera e di riposo spirituale e fisico.

II 12 maggio del 1990 fu nuovamente consacrata la chiesa che venne dedicata a San Crispino da Viterbo. Era lo stesso giorno in cui, nel 1748, fra Crispino lasciò il convento di Orvieto per quello di Roma.
La chiesa del convento, inizialmente concepita priva di cappelle, è coperta con una volta a botte a tutto sesto ed è priva di finestre. E’ stata abbattuta la parete che divideva la chiesa dal coro per i religiosi e vi è stata posta la pala d'altare che raffigura l'Immacolata Concezione, proveniente dall'ex convento dei cappuccini di Bagnoregio.
Oggi il convento è predisposto per l’accoglienza di gruppi e di famiglie che avvertono il bisogno di un momento di quiete e di pace.


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Per informazioni: Tel. 0763.341387
Convento Cappuccini, 05019 Orvieto Stazione (TR)

Per saperne di più:
Maria Antonietta Bacci Polegri (a cura di), Servite Domino in letitia. Piccola storia del convento di San Crispino di Orvieto. Convento frati cappuccini-Orvieto 2006, 79 pp.
AA.VV. Il convento di San Crispino da Viterbo. Vicende di un restauro. Roma 2007, 32 + 15 pp.


Rinaldo Cordovani


I TRE DI ORVIETO


1. Fra Paolo da Porano (1557-1617)
Il santo lanino



Frate Paolo nacque a Porano, nella diocesi di Orvieto, verso il 1557, dalla famiglia Bruti. Vestì l’abito dei cappuccini a Tivoli verso il 1577.
Da Tivoli fu mandato in qualità di Lanino nel Convento di Orvieto, dove allora si lavoravano i panni per tutti frati del Lazio. Scardava, filava, tesseva la lana con tanta diligenza - scrive il suo biografo - che poco dopo il P. Provinciale lo fece Capo e Direttore di quel Lanificio.
Altri frati cappuccini artigiani si son fatti santi così. Felice da Cantalice, Serafino da Montegranaro, Bernardo da Offida, Crispino da Viterbo, Bernardo da Corleone hanno raggiunto la santità esercitando l’attività di cucinieri, ortolani, cercatori e portinai. Fra Paolo da Porano raggiunse la santità facendo il mestiere di lanino ad Orvieto per circa 40 anni. Il lanificio lo teneva occupato tutta la giornata e con l’esempio precedeva nel lavoro tutti gli altri, evitando i rimproveri e i richiami non strettamente necessari. Sapeva essere allegro e gioviale, ma esigente verso gli oziosi e gli sfaticati.

Aveva come dipendenti molti frati che lavavano, tessevano e filavano la lana per le vesti dei frati. Dicono le cronache che “verso tutti aveva una squisita delicatezza”. Gli orvietani e gli abitanti dei dintorni lo chiamavano “il Santo”.
Si racconta che una volta fu visto volare dal fondo della chiesetta dei cappuccini di Orvieto, verso l’altare dove era il tabernacolo, gridando: aspettami, aspettami! Si racconta ancora che un giorno incontrò un carbonaio, disperato per la morte del suo cavallo. Frate Paolo cercò di consolare l’uomo, poi sferrò un calcio al cavallo, che balzò in piedi più vivo di prima.
Morì ad Orvieto il 18 aprile 1617. La sua tomba divenne subito meta di pellegrini che chiedevano ogni sorta di grazie. Nel 1628 i suoi resti furono riesumati e si trovò che il corpo era flessibile ed integro. Fu trasportato e collocato in un modesto monumento nella parete sinistra della chiesa del convento, presso l’altare maggiore.

Appena morto, comparve ad un ragazzo storpio di Orvieto, figlio di Orsino e Marzia Febei. Il ragazzo stava vicino al fuoco del caminetto. Vide fra Paolo che gli fece una carezza e gli consegnò un bastone; poi gli disse di andare dalla mamma appoggiandosi a quel bastone. La mamma, che stava impastando il pane in un’altra stanza, se lo vide comparire davanti guarito. Il figlio le raccontò l’incontro con fra ' Paolo e ringraziò il Signore.
Anche il saio di fra' Paolo, indossato dopo la sua morte, da frate Agàpito da Cànetra, divenne irresistibile contro i demoni. “quell’Abito – scrive il biografo - diventò formidabile a tutti Demoni dell’Inferno, e quanti vi erano per quei Luoghi vicini, e lontani al comparire di Fr. Agapito erano subito liberati dallo spirito infernale”.
I suoi sandali, invece, indossati dal P. Francesco da Carpineto, Guardiano nel convento di Orvieto, lo guarirono dalla podagra. Infatti, “per la stima che aveva di Fr. Paolo, morto che fu, si prese i di Lui sandali, e se li pose ai suoi piedi: ottenne subito la grazia desiderata, e in seguito non fu più tormentato dalla podagra”.

I miracoli ottenuti per sua intercessione furono così numerosi che il Cardinale Crescenzi, vescovo di Orvieto, incaricò il Guardiano del convento, di raccoglierli in un libro ora andato perduto.
Ma la folla dei devoti divenne così numerosa da disturbare la quiete dei frati. Allora il padre Guardiano del convento si recò anche lui sulla tomba di fra' Paolo e gli ordinò, per santa obbedienza, di non fare più miracoli, “perché non voleva lui ed i suoi religiosi essere incomodati dal concorso di tanti fedeli". Detto fatto, fra Paolo, che fu obbedientissimo in vita, ubbidì anche dopo morte. Da quell’istante cessò di far miracoli”.






2. San Crispino da Viterbo (1668-1750)
Il santo cercatore




Fra Crispino da Viterbo




Orvieto Cella di S.Crispino da Viterbo


A Viterbo, il 13 novembre 1668, nacque un bel maschietto a mamma Marzia, che rimasta vedova con una bambina, aveva sposato in seconde nozze Ubaldo Fioretti. Il bambino fu battezzato due giorni dopo e gli fu posto il nome di Pietro. Rimasto presto orfano di padre, lo zio Francesco lo mandò a scuola di grammatica dai padri Gesuiti e poi lo mise a lavorare nella sua bottega di calzolaio.
La madre lo educò ad una fede ingenua e semplice. Un giorno lo portò nel santuario viterbese della Madonna della Quercia, gli mostrò l’immagine della Madonna dipinta su una tegola e gli disse: Vedi, Pietro, quella è la tua mamma e la tua Signora; da ora in poi la devi amare ed onorare come tua madre e tua Signora. Il piccolo Pietro non dimenticò mai quella gita “fuori porta” insieme alla mamma. Una delle caratteristiche del futuro frate Crispino, sarà proprio la semplice ed affettuosa devozione alla Madre di Dio. Era solito, dovunque andasse, costruire nell’orto un’edicola di frasche, vi poneva un’immagine della Madonna, davanti alla quale spargeva dei semi o del grano o delle molliche di pane perché gli uccelli andassero a “cantare” davanti all’immagine sacra.
Pietro, però, se cresceva in bontà, rimaneva piccolo di statura e malaticcio, tanto che lo zio Francesco si sentì in dovere di dire alla mamma: Tu sei buona a governare i polli, ma non i figli! Non vedi che Pietro non cresce perché non mangia? Il 22 luglio 1693 il Padre Maestro e Guardiano del convento della Palanzana (VT) vestì con l’abito religioso dei cappuccini il giovane venticinquenne Pietro Fioretti e, secondo l’uso dei Cappuccini, gli cambiò nome e cognome e fu fra’ Crispino da Viterbo. Trovò qualche difficoltà ad essere accettato perché era piccolo di statura e magrolino. Durante l’anno di noviziato fu messa alla prova la sua resistenza fisica e la sua robustezza spirituale. Crispino, infatti, aveva chiesto di essere “frate cappuccino”, non “Padre cappuccino”, quindi fu destinato non a leggere libri e alla scuola, ma a coltivare l’orto con la vanga e la zappa e a girare per i paesi vicini a chiedere l’elemosina; oltre questo, doveva prendersi cura della casa, compresa la cucina per i frati.
Nel convento c’era un frate malato di tubercolosi, mandato in quel convento perché potesse respirare meglio e fu affidato alle cure di frate Crispino. Il malato poté dire: Questo fra Crispino non è un novizio, ma un angelo. E il suo Maestro di noviziato arrivò a dire agli altri novizi: fate come frate Crispino.
Dopo l’anno di noviziato, frate Crispino fu mandato in vari conventi del Lazio, e finalmente approdò a quello di Orvieto con l’ufficio di frate cercatore, e vi rimase 38 anni.
L’Ospizio di Fra Crispino
Ad Orvieto frate Crispino, a motivo del suo ufficio di questuante, non viveva sempre in convento, che era distante dal centro abitato e raggiungibile attraverso un sentiero scosceso, ma in una casupola dentro le mura della Città, a stretto contatto con la gente, nell’attuale via Clementini, a ridosso di Palazzo Viti. Così lo descrive va nel 1982 Andrea Lazzaroni: “Salendo per il vicoletto (l’attuale via Clementini), si nota sulla destra - dopo l’alto muro di cinta di un giardino - una piccola porta che reca ancora i segni del tettuccio di riparo. E, poco più su, resta nella parete una cornice di rozza muratura, dove verosimilmente era una immagine sacra. Così pure, di lì a pochi passi, sussiste l’archetto a cavallo della strada, dove nelle notti d’estate, su di un murello - che non c’è piú - san Crispino si recava a dormire a cielo scoperto. Varcata la porta, dopo saliti due scalini, sulla destra è tuttora quella “grotticella”‚ dove il Santo soleva nascondersi per darsi la disciplina senza essere notato. Sulla sinistra invece è una larga porta antica, ad un battente, che dà in un ambiente a volta - detto allora la “stanziola”- dove venivano raccolte le provviste questuate e si distribuivano le elemosine ai poveri nelle giornate invernali o piovose.
Girando per città e campagne dell’orvietano, conosceva tutti e tutti lo conoscevano; riceveva da tutti e tutti ricevevano da lui. Era l’amico atteso e desiderato, che portava la letizia del suo cuore semplice, la parola di Dio e quella dei poeti, specialmente del Tasso (“Gerusalemme Liberata”), di cui conosceva a memoria i canti più significativi. Portava anche, secondo la tradizione cappuccina, le erbe da lui coltivate nell’orto del convento.
Dietro la porta della sua cella aveva scritto la lista dei luoghi nei quali passava periodicamente. Vi si leggono i nomi di Ficulle, Porano, San Vincenzo, Baschi, Castel Giorgio, Prodo, Sala, San Vito, Castel Rubello, Sugano, Torre Alfina, Monterubiaglio ed altri. In fondo all’elenco aveva scritto: “Vivi sano e dal peccato sta lontano”.

Il buon umore

Sono rimaste celebri le sue battute:

- Ama Dio e non fallire,
fa pur bene e lascia dire.

- La divina provvidenza,
più di noi assai ci pensa.


Al Cardinale Vescovo di Orvieto Ferdinando Nuzzi (1716-1717) che si lamentava dei suoi malanni, disse: Signor cardinale, datevi pace, perché gli uomini di questo mondo sono tutti come tanti fusi di legno…e un fuso rimane sempre e solo un fuso, nonostante che vi si avvolga intorno filo bianco o nero o rosso.

Ad Orvieto succedeva di frequente di trovare un neonato lasciato di proposito davanti al convento o all’ospizio di Crispino in città. Il fraticello viterbese lo raccoglieva, con grande cura lo avvolgeva nel suo mantello e lo portava all’ospedale di Santa Maria della Stella. Successe che una volta dal suo mantello s’intesero uscire dei pianti di un bambino; alla gente sorpresa disse: Ecco che questa notte Crispino ha partorito; ecco il figlio di fra’ Crispino!

Pioveva quel giorno e fra' Crispino camminava in fretta verso il suo ospizio in città. Lo raggiunse il vescovo di Orvieto in carrozza – era il viterbese Vincenzo degli Atti - e si fermò a parlare con lui. Siccome pioveva e il Vescovo in carrozza la faceva lunga, Crispino gli disse: Monsignore, io non mi bagno, perché una Sibilla mi sta tenendo l’ombrello e mi aiuta a portare la fiasca; però i vostri cavalli, il cocchiere e i servitori tutti si bagnano. Erano due viterbesi e si capirono bene.

Ad un frate, suo concittadino, disse: Paesano, se vuoi salvarti l’anima, hai da osservare le seguenti cose: amar tutti, dir bene di tutti e far bene a tutti.

Crispino conservò il gusto della battuta e dell’umorismo fino all’ultimo. Aveva detto al frate infermiere: siamo giunti al termine; non vi darò più fastidio, ed aggiunse subito che non sarebbe morto il giorno della festa San Felice da Cantalice - il 18 maggio - ma il giorno dopo, per non turbare la gioia dei frati in festa per il primo santo cappuccino. E concluse: sta pur quieto e sicuro, fidati di me! E così fu, morì il 19 maggio 1750 alle ore 13,15.




3. Padre Gianfranco M. Chiti (1921-2004)
Il santo militare


Colonnello Chiti

Padre Gianfranco

Nato a Gignese (VB), passò l'infanzia e la prima giovinezza a Pesaro, dove la famiglia si era trasferita. Fin da ragazzo s'iscrisse all'Ordine Francescano Secolare e aderì alla Conferenza di San Vincenzo de' Paoli.
All’età di 15 anni entrò nella carriera militare. Frequentò il Liceo come allievo Ufficiale nella Scuola Militare di Roma. La notte precedente gli esami di maturità, fece voto alla Madonna che, se fosse stato promosso, avrebbe trascorso i mesi estivi al servizio dei poveri. E fu così. Non tornò nemmeno a casa dai suoi per timore di non farcela ad osservar il voto fatto. Questo riferimento alla Madre di Gesù lo accompagnò per tutta la vita. Nelle caserme e nei campi militari dei quali fu responsabile, volle sempre un’edicola, una statua o un’immagine della Madonna. Nel 1953 era Comandante del Quartier Generale del Comando delle Forze Armate a Mogadiscio, in Somalia. Qui, una notte, sorprese i suoi militari che in una tenda ascoltavano la Radio. Mancanza gravissima. Saputo, però, che stavano sentendo il messaggio di Pio XII che, con l'Enciclica "Fulgens Corona Gloriae" dell'8 settembre 1953, indiceva l'anno mariano per ricordare i 100 anni del dogma dell'Immacolata Concezione di Maria, li impegnò a costruire una cappellina in onore della Madonna e scrivere sul portale d'ingresso le parole dell'Enciclica: "Fulgens Corona Gloriae". Chi va nei luoghi dove è stato di residenza il Chiti, sia da militare sia da frate cappuccino, trova una cappellina dedicata alla Madonna e, quasi sempre vi si legge quella scritta. Nel convento dei cappuccini di Orvieto questa edicola l’ha voluta proprio davanti alla porta della chiesa; inoltre, qui, fece in modo che gli archi di rampicanti che costeggiano il viale che porta alla grotta di Lourdes, formassero una continua serie di M (iniziali di Maria).

Colonnello Chiti

Padre Gianfranco

Tra i suoi soldati ha voluto che ci fosse sempre un cappellano che tutti i giorni celebrasse la Messa, alla quale lui stesso assisteva ricevendo la Comunione. Ogni giorno, anche quando era internato nei campi di concentramento di Coltano e di Laterina, (in Toscana), recitava il Rosario e si raccoglieva in meditazione.
Dal 29 aprile 1941 al 25 aprile 1943 fu combattente sui fronti croato, greco e russo. Nella Campagna di Russia, durante la ritirata dal fiume Don, fu ferito al calcagno sinistro e subì il congelamento di 2° grado ad entrambi gli arti inferiori. Ebbe anche una scheggia in un occhio.
Gianfranco Chiti ricorda quegli anni così: Quando, durante la ritirata, vedevo i corpi dei miei giovani compagni riversi senza vita, mi veniva l'istinto d'inginocchiarmi e baciarli, perché morivano per le colpe di altri, perché erano stati strappati alle loro famiglie, portati in territori lontani a morire. Vedevo in loro l'immagine del Redentore, perché anche la guerra è effetto dei peccati del mondo. Quando ci incontravamo con gli altri, i nemici, non con le armi in pugno, fra noi non c'era né odio né violenza, ma rispetto, desiderio di aiutarci. Come saremmo ritornati vivi in Italia, se non avessimo ottenuto l'aiuto delle donne russe, che ci hanno dato da mangiare quel poco che gli era rimasto, probabilmente perché nei nostri volti vedevano i volti dei loro figli e dei loro mariti che stavano dall'altra parte?

Colonnello Chiti

Padre Gianfranco

Aveva 22 anni durante la ritirata dal fronte russo. Ricorda così quei giorni terribili: Fu soprattutto in quel momento di grande sofferenza per i nostri soldati, per i nostri combattenti, per i soldati impegnati su quel fronte, che trovai nella religione un motivo per superare momenti di grande crisi, per trovare forza e incitamento a cercar di portare il maggior sollievo possibile ai miei fratelli sofferenti di entrambe le parti. E proprio sul fronte russo, durante il ripiegamento, tornò insistente in lui il desiderio di entrare nell'Ordine dei Frati Cappuccini.
Tornato fortunosamente in Italia, dopo l’8 settembre 1943, quando il Re d’Italia fuggì al sud e il capo del governo, Benito Mussolini, si era ritirato verso il nord, con una schiera di giovanissimi granatieri da lui organizzata, si mise al servizio della Repubblica Sociale Italiana (RSI), coerente al giuramento fatto, salvando centinaia di persone e di ebrei dallo sterminio. Un testimone oculare scrive che il Ten. Chiti salvò dalla deportazione in Germania o dall’internamento in Italia il sig. Giulio Segre, di razza ebraica, trovato a Carmagnola. Il Ten. lo arruolò nella sua Compagnia e poi al primo di aprile lasciò che se ne andasse via. Egli aveva poi preso su di sé il sostentamento del padre del predetto Segre, che viveva a Torino in misere condizioni, data la sua appartenenza alla razza ebraica. A me consta che parecchie migliaia di lire (e tutte di tasca del Tenente) gli furono mandate per mezzo del figlio Giulio. Se parecchi paesi non furono bruciati e non ebbero feroci rappresaglie, comandate da Ufficiali superiori, lo si deve all’umanità del Ten. Chiti: anzi, il suo esempio e le sue parole ebbero un influsso molto forte sui suoi colleghi comandanti di Compagnia ed altri ufficiali, creando così una vera mentalità antirapresagliesca ed antiferoce, ed inducendo agli scambi di prigionieri, a colloqui tra capi partigiani ed ufficiali. Arrivati gli americani, fu imprigionato e internato in campo di concentramento in Toscana. Dopo il servizio in Somalia e vari incarichi in Italia, dal 20 ottobre 1973 al 10 gennaio 1978 fu nominato Comandante della Scuola Allievi Sottufficiali dell’Esercito in Viterbo. I suoi allievi lo ricordano con ammirazione e devozione: era esigente, rigido, presente nelle ricorrenze felici o tristi dei suoi militari, e non mancava di ricordar loro di fare gli auguri per i compleanni dei genitori. Generoso con i poveri e poverissimo lui stesso. Instancabile lavoratore fino a notte alta.
Il 6 maggio 1978 fu promosso Generale di Brigata e collocato in ausiliaria per raggiunti limiti di età. Finalmente poteva realizzare il desiderio della sua vita, affidato durante la ritirata dalla campagna di Russia – come lui stesso affermò - alla Beata Vergine perché mi aiutasse a coronare la mia aspirazione. Infatti, 24 giorni dopo il pensionamento, il 30 maggio 1978, entrò in qualità di novizio nel convento dei cappuccini di Rieti. Il 12 settembre 1982 fu ordinato sacerdote nel Duomo di quella città.
Come frate cappuccino e sacerdote, in pochi anni ha fatto un bene immenso, soprattutto tra i militari e i Granatieri di Sardegna, ai quali è rimasto legatissimo fino alla fine dei suoi giorni.

Colonnello Chiti

Padre Gianfranco

Ad Orvieto i cappuccini avevano un vecchio convento abbandonato e ormai ridotto ad un rudere. Padre Chiti in poco tempo ne ha fatto un luogo confortevole di raccoglimento e di preghiera.
Confidò ad alcuni amici che erano andati a trovarlo: io non sono venuto qui soltanto per restaurare questo convento, ma soprattutto per restaurare il mio spirito e quello di chi vorrà venire in questa oasi di accoglienza. In una predica nella chiesetta del convento disse: Eccomi! E’ la parola più piccola che possiamo dire, ma quanto preziosa: “sono qui per te, cosa vuoi che io faccia?”. Non si tratta di dire “eccomi”, ma “farlo” quando Dio ci chiama a superare un contrasto, ad aiutare qualcuno, a raccoglierci in preghiera, a dire una parola, a tacerla, a sostenere una paura, a riempire una solitudine. E questo Chiti ha fatto, sia da militare che da frate cappuccino.
La mattina del 9 luglio 2004, scendendo, come di solito, dal convento verso la Città, la FIAT Uno da lui guidata andò a sbattere contro un albero. L’urto provocò a p. Chiti la frattura del femore. Erano le ore 10,30. Fu prima ricoverato all’ospedale locale e poi trasferito all’Ospedale militare romano del “Celio”. Qui è spirato il 20 novembre 2004.

Padre Gianfranco

Edicola Mariana

Avrebbe desiderato che nel giorno della sua sepoltura fosse celebrata la Santa Messa in latino, possibilmente la Santa Messa degli Angeli o “cum jubilo”, paramenti sacerdotali bianchi, con coro e organo, a gloria di Dio e di Maria Santissima. Invece i funerali si sono svolti nel duomo di Orvieto, con gli onori militari dovuti al suo grado, presenti, oltre i familiari, autorità religiose, civili e militari e moltissimi confratelli cappuccini, conoscenti, ammiratori e devoti.

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Per saperne di più:

Fra’ Gianfranco Maria Chiti, Un’occasione chiamata “Gianfranco”. Associazione Nazionale Granatieri di Sardegna. Sezione di Roma. Roma 2007, 64 pp.
AA.VV. Orvieto. Il Convento di San Crispino da Viterbo. Vicende di un restauro. Roma 2007, 32+15 pp.

www.padregianfrancomariachiti.it

www.paginedifesa.it

www.portalememorie.it


Info: Convento Cappuccini - Orvieto Scalo 05019 (Tr)
Convento San Crispino - Località dell'Arcone
Tel. e fax 0763341387


Rinaldo Cordovani

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