martedì 17 dicembre 2013

La “fede” nella lingua di Gesù


 


Padre Massimo Pazzini, decano dello Studium Biblicum di Gerusalemme, va alla radice semitica del “credere” e spiega uno studio sugli ulivi del Getsemani

Il padre Pazzini vive a Gerusalemme e si sente un po' da come parla l'italiano. Fa parte della Custodia francescana di Terra Santa, la missione che – da secoli – i figli spirituali di San Francesco portano avanti nelle terre di Gesù e dei Vangeli. Prima del suo viaggio a Vicenza per partecipare al Festival Biblico, Aleteia lo ha contattato per farsi dare una anticipazione dei temi che tratterà nei prossimi giorni, tutti incentrati sulla filologia e i suoi apporti. Capire il contesto culturale della Bibbia ci aiuta a comprenderla meglio e a scoprirne i tesori spirituali.

Siamo nell'Anno della Fede, fortemente voluto da papa Benedetto e confermato da papa Francesco, come viene intesa la “fede” nel mondo semitico antico?

Massimo Pazzini: Studiare e guardare la fede in tutte le lingue è interessante. Gesù parlava aramaico e spesso le differenze che troviamo nelle sfumature ci aiutano a riscoprire delle cose preziose anche nell'uso italiano. Guardando all’ebraico veniamo a scoprire che il significato base della radice che indica “credere” (’aman) è quello di 1) “educare come una balia, allevare, portare al petto” e questa immagine ci fa pensare a Dio che ci attira a sé con amore, come una nutrice porta il bambino al proprio petto. La radice, sempre in questa linea, può significare anche “padre adottivo” o “madre adottiva”. Da questa immagine nasce il concetto (valido anche per noi oggi) di “educare alla fede”. 2) Da questa radice deriva anche la parola amen che indica una conferma “così è” oppure “così sia” e ci ricorda che il credere non è un atto compiuto una volta per sempre, ma va attualizzato nella vita di ogni giorno. 3) Un terzo significato della radice è quello di “pilastro, stipite/sostegno della porta”. Questo ci fa pensare al fatto che la fede deve essere solida e deve reggere la persona come i pilastri reggono una costruzione. 4) Dalla stessa radice deriva anche la parola ebraica emèt che significa “verità”; infatti la nostra fede parte dalla convinzione che il suo oggetto, il Dio in cui crediamo, è vero e credibile. Insomma, mi verrebbe da dire, che la fede o è “vera” (cioè matura) oppure non è fede. 5) Ci sarebbe anche una quinta accezione, derivante dall’ebraico moderno, che vede la fede come “lotta, battaglia”. Nella lingua moderna il verbo assume il significato di “allenarsi, esercitarsi” (esercizio fisico degli atleti). Questo fa pensare alla lotta, all’agone (agonismo) della fede. Un tema presente anche nel Nuovo Testamento (2Tim 4,7) dove si usa questa terminologia: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”.

Nel cristianesimo muta questo concetto di fede? E come?

Massimo Pazzini: Naturalmente la teologia cattolica si basa sulla scolastica di San Tommaso che definisce in modo molto preciso cosa sia la “fede”: “credere è un atto dell'intelletto che aderisce alla verità divina, sotto il comando della volontà, mossa da Dio mediante la Grazia”. In questa definizione abbiamo tre momenti: 1) All’inizio c’è la grazia di Dio (= dono gratuito ma necessario) che 2) muove/spinge la volontà, la quale, a sua volta, 3) comanda all’intelletto di aderire alla verità divina. Anche l'uomo biblico sa che ci vogliono questi tre elementi. Anche il pio ebreo dell’Antico Testamento sa che per credere non basta la sua adesione mentale volontaria, ma occorre anche una chiamata iniziale di Dio. Questa situazione è più che evidente nei salmi. Una frase mi ha colpito ed è “cercare il volto del Signore”: “Il tuo volto, Signore, io cerco, non nascondermi il tuo volto” (Sal 27,8), oppure “se tu nascondi il tuo volto vengo meno” (Salmo 104,29). La differenza essenziale è che il Cristianesimo ha delle elaborazioni teologiche uniche come Gesù Cristo (Dio fatto uomo), la Trinità, la presenza eucaristica: tutte cose rivelate unicamente ai cristiani. Cose che l’ebraismo non può accettare senza pensare di sminuire la persona di Dio...

Lei ha partecipato ad una ricerca che ha incrociato il lavoro storico- filologico e quello dell'analisi del DNA circa la possibilità di capire l'origine degli ulivi del Getsemani e la loro presenza nei Vangeli della Passione. Ce ne vuole parlare?

Massimo Pazzini: Chi studia i Vangeli nella supposta lingua originale (greco) o nelle lingue delle versioni antiche (aramaico, latino) sa che le parole hanno un peso, quindi vanno prese sul serio. Nel caso concreto del Getsemani dobbiamo risolvere, prima di tutto, il significato stesso del nome. Nella parola Getsemani si riconoscono due elementi ebraici (o aramaici). La seconda parte del nome “-sémani” fa pensare a qualcosa che ha a che fare con l’olio d’oliva (e questo ci sta bene, data la localizzazione proprio al monte degli olivi). La prima parte del nome “Get-” richiama la parola ebraica/aramaica gat che può significare “spazio recintato, giardino, orto” (uso non biblico) oppure “torchio/frantoio”. Entrambi i significati si addicono molto bene al nostro contesto: 1) nel primo caso avremmo il senso di “orto/giardino oleario”, mentre 2) nel secondo caso avremmo il senso di “torchio/frantoio per l’olio”.

Quando si parla di frantoio/torchio dell’epoca biblica bisogna uscire dal nostro concetto di “torchio a vite” (che non è attestato prima dell’epoca bizantina), ma bisogna pensare alla parte inferiore, in pratica a una buca nel terreno che raccoglie il succo della spremitura. Si può vedere il passo di Mc 12,1 (versione CEI 1974): “Un uomo piantò una vigna, vi pose attorno una siepe, scavò un torchio…”. Dunque il torchio all’epoca di Gesù è un buco nella terra/pietra… Per sottolineare questo fatto nella nuova versione (CEI 2008, che abbiamo letto anche nella liturgia di ieri) hanno proposto una diversa traduzione: “Un uomo piantò una vigna, la circondò con una siepe, scavò una buca per il torchio…”. Forse sarebbe stato meglio dire scavò una buca come torchio sottolineando che, nella mentalità biblica, la buca è il torchio (e non il luogo dove porre il torchio!).

Venendo agli olivi del Getsemani ci chiediamo se questi possano risalire all’epoca di Cristo, cioè se possano identificarsi con le piante che videro la preghiera intensa di Gesù al Getsemani. In questo caso sarebbero gli ultimi testimoni viventi della Passione! Ci sono fonti letterarie che parlano degli olivi; queste fonti vanno coniugate con i test scientifici (DNA, datazione tramite la dendrocronologia) per vedere se portano in una stessa direzione… Le fonti letterarie ci lasciano un vuoto di circa 1400/1450 anni che va dai fatti evangelici fin verso il 1500. Praticamente pur non avendo dubbi sull’identificazione del Getsemani e sulla sua localizzazione, abbiamo un vuoto nella menzione degli olivi fino al domenicano tedesco Felix Fabri (circa 1480) che menziona gli olivi ma senza dare loro alcuna importanza dal punto di vista religioso (…ci siamo seduti all’ombra degli olivi e abbiamo fatto colazione insieme gioiosamente). Bisognerà aspettare ancora un secolo, cioè il pellegrino Giovanni Zuallardo (1586) per avere informazioni più dettagliate. Egli scrive: “Questo giardino ha ancora de gl’Oliveti vecchissimi: ma è diviso in diverse parti, tanto per il camino, come per le chiusure”. Il pellegrino nel 1586 parla degli olivi li chiama “Oliveti vecchissimi”. Questo significa che si trattava di piante che potevano avere qualche secolo di vita. In questo modo si può ragionevolmente risalire almeno all’epoca medievale. Di più non ci è dato di affermare. Tuttavia – e questo è molto interessante – gli otto ulivi monumentali presenti sul Monte oggi sono tutti figli dello stesso albero, e hanno tutti all'incirca un migliaio di anni, cioè sono compatibili con la presenza crociata a Gerusalemme.

 

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