sabato 4 gennaio 2014

IL BUON PASTORE

  Giovanni c. 10

Il capitolo 10 si aggancia senza interruzione al capitolo 9; il discorso diretto infatti si concluderà in 10,21. Solo le immagini cambiano: prima c’era Gesù, Luce del mondo, ora quella del Buon Pastore.
La metafora del Pastore e del gregge è frequente nell’AT per esprimere il legame che descrive Israele come gregge di Dio condotto con premura nel deserto e poi attraverso le vicissitudini della sua storia verso un atteso compimento (Is 49,95). Mosè, Giosuè, i Giudici e Davide sono chiamati “pastori”. In tempi posteriori i profeti risuonano di invettive contro i pastori infedeli (Ger 22,25; Ez 34). Questi testi contengono l’annuncio di un misterioso pastore che Dio susciterà secondo il suo cuore come un nuovo Davide.
Una singolare similitudine (10,1-6)
Ora l’evangelista ha radicato il suo testo sul terreno biblico, ma la sua opera rimane profondamente originale: il Pastore è unico e dona la sua vita per le sue pecore. Il discorso si articola in due parti di lunghezza disuguale, separate da una annotazione sull’incomprensione degli ascoltatori (10,6). La prima (10,1-6) presenta un quadro pastorale di stile impersonale (egli, il pastore). La seconda si sviluppa in stile personale (io), due temi ripresi dal quadro iniziale (101-10; 15-18). Il brano termina con una nota del narratore sulla divisione provocata da Gesù sull’uditorio (10,19-24).
“In verità, in verità vi dico: Chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un bandito. Chi invece entra dalla porta è pastore, il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli le chiama per nome e le conduce fuori”.
All’inizio si è soliti, da alcuni, descrivere il recinto degli ovili che sono sparsi sulle colline della Giudea. Queste descrizioni però a nulla servono per capire il testo nel quale ci sono due parole che in una lettura giusta ci immettono nelle istituzioni religiose di Israele. Il termine recinto (in greco: aulé) non indica mai il recinto di un ovile, ma il cortile adiacente a un edificio. Nei LXX per 115 volte su 177, si tratta dell’area antistante alla Tenda del Convegno, usata durante l’Esodo, o al cortile del Tempio, cioè il cortile del Tempio dove si riunivano gli Israeliti. E il termine “portinaio” (in greco: turoròs) è una parola che non è mai usata per indicare il custode di un ovile, ma assai usata per indicare il custode delle porte del Tempio. Sembra perciò inevitabile pensare che il parlare di Gesù faccia riferimento alle istituzioni religiose di Israele. Ed è questo che esige il contesto.
Ebbene, Gesù entra nei cortili del Tempio dove c’è un solo gregge, quello di Israele. Molti accolgono la sua parola e Gesù vede in essi le sue pecore, cioè i suoi discepoli, quelli che il Padre gli ha dato. Però la situazione con i farisei degenera e le guide spirituali del popolo causano la disunione e lo scontro con Gesù. Ora l’evangelista descrive il comportamento di Gesù nei riguardi di coloro che credono in lui.
A un certo punto egli chiama le sue pecore, i suoi discepoli, le fa uscire dal recinto e cammina davanti a loro. Non si dice dove vada, ma il verbo camminare (poreuomai) indica in Giovanni il ritorno di Gesù al Padre. In una parola conduce i suoi verso la salvezza. Si dice anche che “le conduce fuori”, meglio che “le spinge fuori”, cioè fuori dal giudaismo. È l’esperienza che la prima comunità ha dovuto fare. Ebbene, ci sembra che sia questo il senso di tale similitudine o parabola.
Gesù spiega come intende essere Pastore (10,7-18)
La spiegazione si suddivide in due parti. La prima riprende i temi fondamentali del discorso parabolico (10,7-13); la seconda precisa meglio il concetto di Pastore (10,14-18).
1ª parte:
il Pastore dà la vita (10,7-13). Gesù qui ci offre tre definizioni di se stesso: “Io sono la porta delle pecore” (v. 7); “Io sono la Porta” (v. 9); “Io sono il Buon Pastore” (v. 11). A ognuna di queste definizioni si oppongono coloro che sono un pericolo per le pecore. Scendiamo ai particolari: “Io sono la porta delle pecore”. Già sappiamo che la porta è quella del Tempio.
Perciò subito sappiamo che nessuno può entrare nella casa di Dio e incontrarsi con Dio se non per mezzo di Gesù. Oramai, come si è già affermato (1,51 e 2,25) Gesù è il vero e unico luogo di incontro con Dio. “Io sono la Porta: se uno entra attraverso di me sarà salvo, entrerà e uscirà e troverà pascolo”. La salvezza è possibile solo per mezzo suo; solo con lui si può fare esperienza di libertà, questo è il senso dell’espressione “entrerà e uscirà”. Solo per mezzo suo si può accedere alla vita simboleggiata dalla parola “pascolo”.
E che vita! Dice infatti: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. Ciò è possibile perché “Egli è il Buon Pastore”. “Buono” (in greco: kalòs). È una parola che esprime la qualità di una persona o cosa che risponde pienamente alla sua funzione. Perciò Gesù è il vero e autentico Pastore, perché fa del suo vivere, di tutta la sua esistenza un “dono” che è vita per gli altri.
A queste tre definizioni che Gesù dà di sé si oppongono tre antitesi che presentano i dirigenti giudei, già suoi accaniti persecutori, come “ladri, banditi, ecc.” il cui comportamento può essere descritto con le parole di Ezechiele che condanna i pastori del suo popolo perché hanno pasciuto se stessi senza curarsi del gregge (Ez 34).
2ª parte:
Il Pastore ha cura del gregge (10,14-18). Gesù di nuovo si definisce come “Il buon pastore che dà la vita per le pecore”. Qui però la relazione con le pecore è più personalizzata. Dice infatti: “Io conosco le mie pecore ed esse conoscono me”. Sono parole che esprimono una profonda esperienza di vita, un rapporto intimo, personale, fatto di amore e comprensione. E Gesù per farlo capire meglio lo paragona al rapporto che esiste tra lui e il Padre: “come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e io offro la mia vita per le pecore”.
Tra Gesù e i suoi discepoli c’è la stessa esperienza della vita divina e da parte di Gesù un’esperienza “dono”. Io dò la mia vita per le pecore, anche per quelle che non appartengono a Israele. “Ho altre pecore che non sono di questo ovile, anche quelle io debbo guidare”. Sono gente di ogni razza, lingua e nazione; “anch’esse io debbo condurre e ci sarà un solo gregge e un solo Pastore”. Ciò avverrà nel futuro, cioè solo dopo la sua morte in cui riuscirà a fare dei due, giudei e pagani, un solo popolo (Ef 2,14-18). L’immagine dell’ovile ora è caduta, il popolo di Dio è unico. Infatti ci sarà un solo gregge e un solo Pastore. Gesù è l’unico principio di vita.
I vv. 17-18 sono molto importanti: “Per questo il Padre mi ama, perché io offro la mia vita per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso. Ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio”.
Questi due versetti permettono di approfondire il primo atto di fede: “Dio lo ha risuscitato dai morti”. Infatti l’appropriarsi da parte di Gesù della sua vita viene illuminato dall’interno come un atto di libertà fondata sul potere sovrano che il Figlio ha ricevuto dal Padre. Il Padre ama Gesù non soltanto per il suo dono a favore delle pecore, ma perché attraverso questo dono, si manifesterà pienamente che il Figlio possiede in se stesso la vita, avendola ricevuta dal Padre (5,26). Perciò egli ha il potere di risuscitare se stesso, cioè di riedificare quel Tempio che è stato distrutto: “Io lo ricostruirò in tre giorni” (2,19).

Epilogo (10,19-21)
Sorse di nuovo dissenso tra i giudei per queste parole. Molti di loro dicevano: “È un indemoniato, perché state ad ascoltarlo?”. Altri invece dicevano: “Queste parole non sono di un indemoniato; può forse un demonio aprire gli occhi ai ciechi?”.
Come si vede c’è dissenso tra i farisei e, sembra che non ci sia nessuno che accolga le parole di Gesù. Però molti sembrano che continuino nella ricerca e che si chiedano: “Chi è? È lui o non è lui il Messia atteso, il Figlio di Dio?”. Nel brano seguente ci accorgeremo che molti continuano a farsi queste domande.
L’ultimo scontro (10,22-42)
“L’ultimo”, non ce ne saranno altri, perché Gesù continuerà a fuggire davanti al pericolo. Andrà decisamente e volontariamente a Gerusalemme solo quando sentirà che “la sua ora” è veramente giunta. Leggiamo l’inizio: “Ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era d’inverno. Gesù camminava nel Tempio sotto il portico di Salomone. Allora i dirigenti Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se sei tu il Cristo, dillo a noi apertamente”.
Dalla festa delle capanne siamo passati a quella della Dedicazione del Tempio, cioè da settembre a dicembre. L’evangelista annota: era d’inverno. Subito percepiamo che anche umanamente c’era un’atmosfera gelida attorno a Gesù. Infatti i dirigenti Giudei, appena lo videro, lo circondarono.
È l’ultimo incontro-scontro che hanno con Gesù prima della sua sentenza di morte. Gli dicono: “Se tu sei il Cristo dillo a noi apertamente”. La risposta di Gesù si suddivide in due parti: nella prima parla della sua messianicità (10,25-31); nella seconda della sua figliolanza divina (10,32-38).
“Sei tu il Cristo?”
“Ve l'ho detto, ma non ci credete. Le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me; ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore”.
Già molte volte abbiamo ripetuto che Gesù fa quello che fa il Padre. Perciò le sue opere sono il segno che egli viene da Dio, che Dio lo ha mandato. Lo ha riconosciuto anche Nicodemo che esse dimostrano che “Dio è con lui” (3,2) e lo hanno riconosciuto alcuni farisei dicendo: “Un indemoniato non può aprire gli occhi a un cieco”. Ma allora perché non credono in lui? Perché in loro non si compie “l’opera di Dio” (6,29). Gesù dice lo stesso quando afferma: non credete perché non fate parte delle mie pecore. L’evangelista dice ai suoi che solo la rivelazione fatta dallo stesso Gesù fa capire che egli è il Messia. Quindi parla delle sue pecore e della loro relazione con il Padre. Sono parole che infondono nel credente la certezza dell’amore di Dio e di Gesù e la sicurezza della salvezza.
“Le mie pecore ascoltano la mia voce ed io le conosco ed esse mi seguono. Io dò loro la via eterna e non andranno mai perdute e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno le può strappare dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una realtà unica.
Di nuovo i dirigenti Giudei presero delle pietre per lapidarlo”. Ma Gesù, forse con un gesto della mano riuscì a fermarli e a dire loro:

“Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre mio, per quale di esse volete lapidarmi?”. Risposero: “Non ti lapidiamo per l’opera buona, ma per la bestemmia perché tu che sei uomo ti fai Dio”. Disse loro Gesù: “Non è forse scritto nella vostra legge: Io ho detto: Voi siete dèi? Ora, se ha chiamato dèi coloro a cui fu rivolta la parola di Dio (e la Scrittura non può essere annullata) a colui che il Padre ha mandato e consacrato, voi dite: Tu bestemmi perché ho detto: Sono Figlio di Dio. Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi, ma se le compio, non credete a me, credete alle opere, perché sappiate e riconosciate che il Padre è in me e io sono nel Padre”.
Allora cercavano nuovamente di catturarlo ma egli sfuggì dalle loro mani. Dopo questa lettura ci si può solo mettere in contemplazione dell’agire insieme del Padre e del Figlio per la nostra salvezza. Essa infonde in noi tante certezze, ma soprattutto quella di non sentirci mai abbandonati, perché se rimaniamo fedeli nessuno potrà mai strapparci dalle mani del Padre e del Figlio.
Diverso l’atteggiamento degli avversari; forse rimanevano lì solo per cogliere Gesù in fallo su qualche parola. Infatti appena disse: “Il Padre è in me e io sono nel Padre”, una frase che equivale all’altra: “Io e il Padre siamo una realtà unica”, subito cercarono di catturalo, ma egli sfuggì dalle loro mani.
E ritornò al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava e qui rimase. Molti andarono da lui e dicevano: “Giovanni non ha compiuto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero”. E in quel luogo molti credettero in lui.

“Al di là del Giordano”: siamo in terra pagana. “I molti che credono in lui”, certamente si riferisce a un evento storico, ma riletto nella speranza. Siamo nel mondo pagano ed è lì, che dopo la Pasqua, molti accoglieranno la fede e aderiranno a Gesù. Il racconto si conclude quindi con un segno di speranza.

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