di Don Pasquale Casillo
La domenica cristiana segna due doveri che sono tra i più necessari e cari a quanti vogliono vivere la Fede con continuo arricchimento spirituale e diffonderla con il proprio buon esempio.
Il primo dovere è quello di riunirsi in assemblea per ascoltare la Parola
di Dio e partecipare all’Eucaristia. Viene assolto partecipando alla
Messa intenzionalmente, attentamente, interamente e corporalmente.
Non
viene quindi adempiuto da chi vi assiste contro la sua volontà o stando
in chiesa solo per vedere e sentire; da chi durante la celebrazione del
Santo Sacrificio dorme o gioca o conversa o studia o legge cose per
nulla riferibili ad Esso; da chi tralascia volutamente la prima parte
della Messa (Liturgia della Parola) o la seconda parte (dalla
presentazione delle offerte alla benedizione finale); da chi dista dalla
chiesa tanto da non poter seguire la Messa nemmeno confusamente o ascolta la Messa per radio o per televisione.
Partecipare
alla Messa della domenica è obbligo personale di ogni cristiano
dall’inizio dell’uso di ragione sino alla morte: anche il sacerdote che
in questo giorno non celebra, è tenuto a prendervi parte. Il fare la Comunione
e il possedere lo stato di Grazia non sono necessari, eccetto nel
compiere il precetto pasquale, per essere osservanti di questo dovere,
ma sono entrambi vivissimamente raccomandati per trarre da ogni
celebrazione eucaristica il maggior frutto possibile. Lo sport, il
turismo, le gite e ogni altra forma di divertimento devono essere
armonizzati con questo primo dovere, il cui adempimento è richiesto dal
terzo comandamento della legge di Dio e dal primo precetto generale
della Chiesa.
Non
assistere, potendo, alla Messa domenicale e festiva è certamente
peccato grave perché è violazione di un ordine che è di diritto
ecclesiastico e, ancor prima, di diritto divino rivelato e, più
remotamente, di diritto naturale.
Se
ne può essere scusati soltanto da gravi ragioni, cioè
dall’impossibi-lità fisica o morale quale si verifica, per esempio, nei
malati, nei carcerati, in quelli che temono di ricevere un notevole
danno uscendo di casa; dalla carità verso il prossimo che esercitano, ad
esempio, gli assistenti dei malati, i pompieri in occasione di incendio
o di alluvione, coloro che hanno certezza di impedire un gran male
restando in casa; dal particolare ufficio da svolgere: quello, per
esempio, dei guardiani di greggi, dei soldati di sentinella, degli
addetti alle ferrovie.
Queste
cause scusano di più dove ci fosse una Messa sola; scusano di meno dove
ci sono più Messe; non scusano per nulla, almeno da un certo momento,
chi se ne facesse pretesto per una dispensa generale o di lunga durata:
supposto che non si possa andar mai alla Messa della domenica, c’è
l’obbligo di andare di tanto in tanto alla Messa di un giorno feriale.
Non
scusa per niente neanche il dire che dalla Messa non si ricava nulla, o
che essa non significa molto, o che non è l’unico segno di vita
cristiana.
Il
secondo dovere della domenica è l’astensione dal lavoro, cioè
dall’occupazione professionale quotidiana, manuale o intellettuale, e da
quella occupazione, anche non quotidiana, che per sua natura rende
impossibile o molto impedito il compimento degli obblighi religiosi.
Tale
astensione è voluta dalla Chiesa per consentire ai cristiani la
possibilità di rendere a Dio nel suo giorno il culto dovutogli non solo
attraverso la partecipazione alla Messa, ma anche mediante altre opere
buone, che non sono comandate ma raccomandate, opere scelte tra quelle
possibili alle circostanze della giornata e allo stato della persona,
quali: leggere libri spirituali, visitare i malati e i carcerati, dire
preghiere, fare pie conversazioni, intervenire alle funzioni sacre, dare
elemosine: queste e simili opere sono più raccomandate a coloro che non
possono andare a Messa.
Certamente,
il solo partecipare alla Messa e astenersi dal lavoro non basta per
santificare la domenica, che appartiene a Dio non solo nella mezz’ora
dedicata alla Messa, ma per tutte le ventiquattro ore e gli appartiene
«come una chiesa, come un calice consacrato» (Pio XII).
Chi
lavora di domenica come se fosse un giorno feriale e trascurando
deliberatamente l’obbligazione religiosa, pecca gravemente perché toglie
a Dio il suo giorno commettendo così un furto, una profanazione, un
atto di ingordigia dopo avere avuto a propria disposizione sei giorni
della settimana. Pecca gravemente anche se la legislazione civile gli
permette o gli comanda di lavorare. Di domenica, non è lecito lavorare
nemmeno al solo scopo di evitare l’ozio.
Chi
invece svolge un lavoro piuttosto lieve, non stancante, per un periodo
breve e più per diletto che per necessità o guadagno non pecca, purché
partecipi alla Messa, abbia tempo per dedicarsi a qualche buona azione e
non provochi scandalo.
Lavori
prolungati e pesanti, manuali o intellettuali, sono permessi a precise
condizioni: quando interviene o la pietà verso Dio in quello che
riguarda direttamente e immediatamente il culto, (adornare la chiesa,
riparare i paramenti, cuocere le ostie); o la carità verso il prossimo
in qualunque modo urgentemente bisognoso (neonati da curare, malati da
servire, morti da seppellire); o la necessità grave propria o di altri
(salvare il raccolto dei campi dal cattivo tempo imminente, riparare i
veicoli in viaggio, far funzionare gli impianti tecnici dei servizi
pubblici). Anzi, in occasione di terremoto, inondazioni, crolli, incendi
e simili calamità, i lavori di soccorso e di salvataggio diventano
addirittura obbligatori.
Questi
due doveri -il primo più imperioso del secondo- imposti sotto pena di
peccato grave non appaiano una prepotenza o un anacronismo o una
stravaganza perché non lo sono affatto. Visti nel contesto teologico e
storico della domenica, essi sono la naturale espressione di un
meraviglioso quadro nel quale rientrano forti e teneri motivi: la
necessità di tributare a Dio un culto pubblico, il sacerdozio
battesimale dei fedeli, i diversi e profondi significati del giorno
domenicale nel quale è avvenuta la Risurrezione
di Gesù Cristo, il valore sublimante e unificante dell’Eucaristia, il
bisogno di rendere visibili l’unità e l’unione della Chiesa, i circa due
millenni nei quali i popoli cristiani del mondo hanno celebrato la
domenica. «La Messa è in prima linea fatta per la domenica e la domenica ha il suo senso pieno attraverso la Messa»
(Jungmann), e «il riposo è voluto da Dio anche più del lavoro: il
lavoro è una condanna temporanea, il riposo è vocazione eterna». (De
Luca).
Ancor
di più, questi due doveri sono una conseguenza spontanea dello spirito
dei cristiani, anzi degli uomini in genere: si può essere certi che
essi, almeno i migliori tra essi, sarebbero arrivati a questi due
doveri, tali e quali o assai simili, anche se non fossero stati
prescritti da Dio e dalla Chiesa. Vi sarebbero arrivati anche per questa
esperienza semplicemente umana e sempre controllabile: chi trova tempo
per Dio, lo trova anche per sé stesso, per gli uomini e per le cose; chi
ha lavorato di domenica, non si è mai arricchito in proporzione del
lavoro fatto; chi si è astenuto dal lavoro domenicale, non si è mai
impoverito, anzi talvolta si è arricchito.
Così
vissuta, ossia cristianamente, la domenica non può non essere anche
giorno « di gioia » -questa parola è del Concilio Ecumenico Vaticano II-
perché nulla sazia l’anima quanto fare il bene per Dio, e niente
ristora il corpo come un’anima infervorata. Gioia domenicale che
anticamente tratteneva i cristiani dal fare la genuflessione in chiesa, e
oggi riconduce in comunità quel camaldolese che ha scelto di restare «
recluso » in solitaria cella dal lunedì al sabato.
Quanto
si è detto della domenica è esteso alle feste dichiarate dalla Chiesa:
alla Madre di Dio (1 gennaio), all’Assunta (15 agosto), a Tutti i Santi
(1 novembre) all’Immacolata (8 dicembre), e al Natale (25 dicembre). È
esteso anche alla sera del sabato e della vigilia delle suddette feste
solo per quanto riguarda l’obbligo di partecipare alla Messa, cioè la Messa ascoltata il sabato sera vale per l’indomani e la Messa sentita la sera della vigilia di ciascuna di queste feste vale per il giorno della stessa festa.
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